Filosofeggiando, Riflessioni

Io sono un solitario

Io sono un solitario.

Ho sempre amato conoscere persone, ho avuto decine di amici, più o meno di valore, e quando uscivo con loro mi divertivo e mi piaceva divertire, scherzare, ironizzare, polemizzare, sorridere, sarcastico, talvolta caustico ma sempre immerso totalmente nella serate, con la compagnia che avevo scelto per condividerle.

Ma resto strutturalmente, immutabilmente, ineffabilmente un solitario.

Quell’immersione era espressione del mio voler partecipare alla mia vita, non assistere al suo scorrere; volevo sperimentare e conoscere ciò che non mi apparteneva, ho cercato la crescita e la soddisfazione nell’accettazione, nella centralità, talvolta periferica, ho brillato per assenza come per presenza. Mi sono circondato di un affetto che mi è mancato, con l’ingenuità di credere che si potesse colmare un fosso scavato dai colpi di mortaio implacabile, su un terreno troppo giovane per assorbirli.

Alla fin fine, come tutti, ho finto che certe cose potessero essere sufficienti, che la compagnia fosse il contrario della solitudine, come un dizionario. Solo che la vita non funziona con le definizioni, ma con l’evoluzione sulla calcificazione su fratture ripetute, attorno al tessuto cicatriziale del nostro essere dilaniato che rimane e rimarrà sensibile.

Quindi, tutto sommato, amavo la compagnia che mi distraeva, e sono stato la compagnia che ha distratto e, con la maturità, ritengo che sia sempre un po’ così: siamo funzionali a colmare solitudini altrui, come noi proviamo a colmare le nostre, lo scambio effettivo è istantaneo, come in una polaroid. Il susseguirsi di polaroid non fanno un film ma solo un album fotografico, talvolta bello, molto bello, più spesso brutto, ma, in ogni caso, disorganico, senza alcun legame con la continuità temporale che resta solo un balsamo per le nostre incertezze, il training autogeno della nostra volontà di stabilità, in un universo, interno ed esterno, instabile, eruttivo, tormentato per sua stessa natura, destinato alla mutazione perenne, secondo dopo secondo.

Con le relazioni impariamo a dissimulare la nostra emotività, per non essere presi in giro, incompresi o semplicemente inascoltati. Parliamo, quasi sempre di cose che restano sulla superficie, del riflesso di raggi solari sulle piccole increspature che movimentano la tavola marina, perché, tanto, chi se ne importa di inabissarsi con la maschera, in apnea, in profondità nelle quali, spesso, non ci sono neanche pesci tropicali o tesori fra relitti di galeoni? Noi stessi, ce ne importiamo davvero di esplorare le profondità altrui, senza poi finire a parlare di noi, prenderci ad esempio, misurare le cose col sestante che ci siamo fabbricati per orientarci, solo ed esclusivamente, nel nostro cielo?

Mi sono sempre ritenuto qualcuno con buone capacità di ascolto e compassione, è spesso stato il mio ruolo, per cui mi sono portato volontario, sempre con grande passione e intriso di buone intenzioni, un ruolo che mi piaceva e che ho coperto volentieri. Poi ho iniziato ad ascoltare e a provare compassione per tutto ciò che non avevo mai detto a nessuno, neanche a me. Da quando ho iniziato a parlarmi di più, ho smesso di intrattenere gli altri e di usare i cerotti sulle loro ferite perché li spendevo sulle mie. Così piano piano sono diventato inutile e, dopo un primo momento di amaro sgomento, mi sono reso conto che non era uno sgarbo rivolto a me, come persona, ma avevo solo cambiato di funzione, acquisito nuove competenze, e quella funzione e competenze non erano previste nell’organigramma di quel tipo di impresa per la traiettoria che si era prefissata. Simple as that.

Alla fine siamo tutti dei tram sui quali le persone salgono per un tragitto, poi scendono, a volte senza neanche ringraziare l’autista, ma poi ne salgono altre, per un nuovo tragitto, poi scenderanno, e così via. Noi facciamo lo stesso, magari senza rendercene conto, saliamo e scendiamo da treni perché vogliamo esplorare nuovi quartieri e territori, poi scegliamo direzioni che ci interessano e lasciamo andare quei vagoni al loro destino, lontano e diverso dal nostro. E’ un gioco di scambi, continuo e, ineluttabilmente, solitario.

Ed è anche per questo che ho smesso, progressivamente, di parlare, perché nessuno ascolta, e ne ha tutto il diritto, perché forse non sono disposto più ad ascoltare neanche io, perché se proprio devo parlare, preferisco farlo con chi scenderà all’ultima fermata, assieme a me. E sarà la fermata in cui il treno sarà vuoto. E voglio avere la forza di tenermi per mano, perché se non lo faccio io, non lo farà nessuno.

Ma è solo la visione, magari sbagliata, di chi è strutturalmente, immutabilmente, ineffabilmente un solitario.