Cadde sul prato, con una capriola riuscì ad essere subito in piedi, sorrideva, ripetendo nella sua testa l’assurdità della scena e la vacuità dei dialoghi. Una porta si spalancò alla sua sinistra, due spiriti si materializzarono ai suoi fianchi, non erano minacciosi, ma con un gesto della mano trasparente gli fecero cenno di entrare. Non aveva scelta ed entrò.
Il grosso portone di legno era intarsiato, nell’ingresso alto e brillante, candelabri illuminavano a giorno la festa che stava già impazzando all’interno, delle maschere nere coprivano visi spigolosi e paffuti, uniformandoli in un unico mistero di colori e risatine soffuse.
Dalla grossa scalinata di fronte scendevano abbracciate coppie che non sarebbero durate più di una notte, ubriache o solo gaie.
L’ospite si guardò intorno, abbacinato, un cameriere gli si fece incontro, un vassoio d’argento sopra il guanto bianco immacolato.
– Assenzio? Gli chiese con un garbo che non gli era più stato riservato da chissà quanto tempo.
Fece cenno di no col capo, non ancora, proseguì spinto dai due spiriti che poi svanirono, lasciandogli il dubbio e, indosso, un profumo di incenso patchouli.
Dal salone alla sua destra uscì un uomo con un coltello piantato in gola, sorrideva, il sangue che zampillava gli macchiò il suo vestito di losanghe multicolori. “Venga, venga, ci si diverte qui”, sentì gorgogliare dalla sua gola prima di vederlo accasciarsi al suolo. “Gaspare ha ancora esagerato con l’assenzio”, disse una donna magra avanzando verso quel corpo esanime, oramai bianco, mentre altri scuotevano il capo di riprovazione.
Arlecchino l’acrobata aggrottò le sopracciglia, non c’erano altri coltelli piantati nei petti, solo cerone su visi scavati dalla solitudine e dall’incomprensione. “Ma ciao, anche tu qui?” disse una vocina effeminata di un cicisbeo in calzamaglia viola, non ce l’aveva con lui ma con un altro avventore. Si baciarono le guance sfiorandosi gli zigomi, simularono un abbraccio, senza toccarsi, come disgustati, eppure il volto esprimeva gioia di quel ritrovamento, come fosse inatteso.
Tutti presero ad abbracciarsi e salutarsi, finalmente, erano riuniti, chissà da quanto erano distanti, distaccati, separati. Chissà da chi, o da cosa? Perché non si erano contattati prima se il nodo che si era creato fra le loro intese era così denso? Si chiese Arlecchino, l’acrobata, mentre con una capriola, proprio nel centro del salone, riuscì a farsi dimenticare, proprio vicino al buffet dove dei tramezzini di pane bianchissimo e carne essiccata dei grigioni giacevano, tristi come sospiri.
– Assenzio? Chiese di nuovo il cameriere di prima, magro, con le tempie sguarnite e lo sguardo torvo da avvoltoio affamato.
Questa volta accettò, più per togliersi di torno quell’individuo che per la sete. Eppure l’assenzio era attraente, dall’alto del suo verde smeraldo e dal sapore intenso che prometteva di raccontare una nuova storia, in quella serata dove scorreva alcool, sangue e falsità, così bevve.
Una zuffa si scatenò poco lontano, proprio sulla terrazza, da cui entrava un vento gelido. Un tipo con una maschera da gatto stava provando a dare dei pugni ad uno con una maschera da orso, mentre una signora mezza nuda, con i fianchi grassi, urlava verso di loro qualcosa che sembravano essere i loro nomi. La zuffa attirò qualche curioso, la perversione nello sguardo, il sorriso accennato di chi aspetta il gesto proibito.
L’acrobata si mise a sedere su una sedia, in un angolo buio, in attesa di poter andar via, mentre il volume di una musica cacofonica suonata da un’orchestra di anziani moribondi, aumentò a dismisura; come aumentarono i baci e gli abbracci fra sconosciuti, persone vagavano con lo sguardo spento, con diversi coltelli infilati nella schiena sanguinante, si baciavano e sorridevano, sorridevano e si baciavano, poi leccavano le lame per sentire quel sapore di aceto e zucchero finto, mentre il colore rosso colorava gli angoli bavosi della loro bocca avida. Era tutto un salutarsi ed un raccontarsi, un ammirare con smorfie di meraviglia il grosso salone dorato che si chiudeva attorno a loro. “Libertà, libertà”, si sentì gridare da un angolo lontano, prima che una risata fragorosa accompagnasse il crollare di una sedia in legno e seta blu che si spaccò sotto il peso di tre persone, incastrate l’una sull’altra.
Un uomo vestito con uno smoking si avvicinò:”Che festa fantastica”, gli disse, come se lo vedesse davvero; poi, una donna vestita come una ballerina da charleston, nascosta da una maschera rossa, se lo portò via, prima che chiunque potesse rispondere. Serpeggiava una certa lascivia, che avrebbe fatto la funzione di tappo di bottiglie e bottiglioni vuoti, persi dietro ai racconti dei loro pasti, le foto dei loro piedi o del cane, mentre un gatto correva dietro un topo che aveva rubato un residuo, trascurabile, di camembert.
L’acrobata fece schioccare le dita, da dietro una tenda spessa come un sipario spuntò fuori il cameriere di prima, l’avvoltoio, stavolta gli sguardi si incrociarono come d’intesa.
Due bicchieri di assenzio gli brillarono fra le dita affusolate. Lui sorrise, e continuò a guardare, come se non ci fosse. Perché non ci voleva essere.