Libri, Recensioni

Le Noeud de Vipères (Groviglio di Vipere) – F. Mauriac

Leggere Mauriac è come andare a fare visita al vecchio zio, aristocratico, nella sua casa padronale, fuori città, con un bel viale d’ingresso alberato, i ciottoli a terra e con, all’interno, un camino, con due poltrone vicine, dove sedersi e ascoltare i suoi racconti.

Il suo stile è liscio, come la pelle delle guance sbarbate di fresco, come una camicia che emana il profumo di acqua di colonia, e, con voce calma, tira rasoiate, lucide e letali, alla società, all’animo delle persone, scavandone la loro grettezza, come con un cucchiaino da thé, di argento annerito.

In questo romanzo, duro, durissimo, come un lungo incubo da cui si ha voglia di uscire, da cui si prova a distogliere lo sguardo, per non guardare nel buio, ci racconta la storia di un vecchio avvocato, non lontano dalla morte, che vede i suoi figli e sua moglie, galassie distanti, bisbigliare per ritagliarsi una fetta del suo cospicuo patrimonio.

E’ un uomo che non si è fatto amare, che forse non sa amare, eppure in questo diario annotato prova a ritrovare la sua umanità o, magari, a farla scoprire a chi non ha saputo leggerla, quando ancora era visibile, sul pelo dell’acqua, come una foglia, caduta da un albero raro, alla deriva.

Le noeud de vipères è una fotografia, in bianco e nero, di una famiglia e di una classe sociale, di un modo di vivere o di non vivere, dove, come avrebbe detto Oscar Wilde parlando del cinismo, si conosce il prezzo di ogni cosa ed il valore di nessuna.

Mauriac ha avuto un Nobel per la letteratura, quando il Premio Nobel si occupava ancora di letteratura e non di propaganda prona allo stupidismo politico contemporaneo, e lo ha meritato tutto, è uno scrittore elegante, profondo, attento, vissuto.

Uno di quelli che leggeresti sempre.

Seduto su quella poltrona, accanto al camino.

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Tanguy Viel — Insoupçonnable

Ce roman, qui m’a été conseillé depuis peu et auquel j’ai regardé avec un voile de méfiance, est une petite pépite qui mérite d’etre découverte.

Histoire de arnaqueurs arnaqués, de malins qui trouvent plus malins qu’eux, de vies qui s’entremêlent, d’êtres humais qui se volent l’un l’autre, l’argent, l’amour, la confiance.

C’est un roman sur la solitude, le marchandage glauque de soi, des valeurs fondateurs d’une âme, d’âmes, perdues, derrière qui sait quel appât du gain. De quoi?

J’ai aimé moins certaines formules trop poétiques, qui ont eu une résonnance fausse, forcée, mais la lecture reste agréable, profonde, rapide. Un voyage, comme d’éclat, dans un monde, bien ficelé, qui n’est pas loin de l’expérience de tous, à différents degrés, sur la laideur de certaines personnes. Une laideur qu’on a du mal à voir. Et pourtant elle est là. Et c’est à nous de s’en éloigner.

Bravo Tanguy. On a passé un très bon moment ensemble, comme dans une carrosse de train, en regardant par la fenêtre ce monde si merveilleux et, parfois, si pathétique.

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Dans les forêts de Sibérie

Come ultimo libro dell’anno e come primo di quello nuovo ho scelto questa sorta di diario di un eremitaggio volontario in Siberia.

Incontrai Sylvain Tesson ad una trasmissione televisiva dove si parlava solo di libri, lui era invitato, io ero fra il pubblico e rimasi intrigato da questo personaggio, non simpatico di primo acchito, che più che uno scrittore era un avventuriero, qualcuno che dichiarava il proprio amore alla vita sfidandola, mettendosi alla prova, per riempirsi di senso da imprimere poi su carta.

Non avevo però mai letto niente di lui, ho sempre privilegiato altri generi e provato a colmare lacune su libri più classici, poi mi fu regalato Dans les forêts de Sibérie (che in italiano mi sembra sia stato tradotto col titolo “Nelle foreste siberiane“) da qualcuno che, devo ammettere, mi conosce più di quanto pensassi.

Tesson scrive una sorta di diario di una sua permanenza di sei mesi in una capanna, nel bel mezzo della Siberia. Si è rinchiuso con una nutrita scorta di libri e altri beni di prima necessità, per ascoltarsi.

Ha voluto provare l’isolamento dalla metropoli, mettere kilometri e un muro di neve fra lui e Parigi, per vivere e sopravvivere, tagliando la propria legna, pescando nel lago ghiacciato di che nutrirsi, frequentando sporadicamente pescatori, responsabili di stazioni metereologiche o amici che aveva incontrato in un viaggio precedente negli stessi luoghi.

Gli spazi immensi, i due cani che ha scelto come unica compagnia durante i sei mesi, gli alberi, il silenzio o lo scatenarsi degli elementi naturali, le escursioni sul fiume o sulla montagna, i bivacchi rischiosi, il riposo, il conforto della vodka, forse troppa, durante le discussioni con i rari avventori che capitavano di là, tutto ciò ha messo di fronte l’uomo con sé stesso, con le sue fragilità e forze, con la sua pervicacia e arrendevolezza. E’ stata un’esperienza per ricordarsi che l’uomo e la natura formano un insieme armonioso, dove la coesistenza è possibile, dove la vita è possibile, anche lontano da una folla di automi e da un Stato che li gestisce, amministra, controlla, ordina, con la sua legge e i suoi tribunali.

Non ho sempre apprezzato lo stile di scrittura, ai miei occhi un po’ troppo lezioso e aulico, al punto di darmi l’impressione di cercare la poesia a tutti i costi, quando la poesia già era nel racconto stesso, nell’esperienza in sé; ma ho molto amato leggere questa storia di un eremita, circondato da libri, da silenzi e dalle sue riflessioni, libero di indagare misteri assoluti, impegnato nel lavoro quotidiano di introspezione.

Questo libro è stato una sorta di specchio nel quale mi sono guardato, dove ho ritrovato pensieri anche miei, dove, attraverso la solitudine volontaria altrui, ho contemplato la mia.

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Seppellite il mio cuore a Wounded Knee



Libro estremamente toccante, ben scritto e ben documentato, sulla conquista del West, vista con gli occhi di chi quelle terre le abitava da sempre, per cacciare il bisonte, seguirlo lungo le vallate, cucire la pelle per gli abiti, prendere l’acqua dai ruscelli, vivere.

Una terra ampia e accogliente, come la sua popolazione, fiera e coraggiosa ma ingenua, come l’anima pura quando è ancora vergine, immacolata, lontana dall’avidità e dal concetto dell’accumulo ma concentrata sulla condivisione. E sarà proprio la condivisione a perderla.

Lungo le pagine scorre, triste e ingiusto, il genocidio degli indiani d’America raccontata dalle testimonianze dirette degli stessi nativi americani dell’epoca, un continuo usurpare proprio sotto gli occhi dei Capi e dei guerrieri che, increduli e troppo pazienti, assistevano al massacro della propria gente e al recintare inesorabile delle loro libertà, nonostante le promesse politiche del Grande Padre Bianco.

E’ un libro non piagnucoloso, che non fa affatto leva sulla corda emotiva del lettore, del resto basterà il racconto storico a far vibrare da sola quella corda, di fronte all’ingiustizia. Brown ci propone una testimonianza storica e umana scorrevole e ben strutturata, sull’invasione di un continente e sull’impatto sulla popolazione che la accoglieva pensando ci fosse spazio per tutti.

Ed effettivamente, come spesso accade, c’è spazio per tutti, il Grande Spirito ha creato grandi praterie, ma chi vuole l’oro, la terra la squarcia con la piccozza, la ferisce, ne strappa con le mani i suoi tesori, non condivide, non ha scrupoli. Mai.

Ieri come oggi.

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Demian — Herman Hesse


Una delle magie operate dalla Letteratura è il suo essere intrinsecamente inesauribile. Non solo come materiale a disposizione, naturalmente, ma soprattutto come fiamma, ardente e perpetua, di scoperta e riscoperta di sé, attraverso il prossimo.

Potremmo rileggere un’opera molteplici volte e ritrovarci a guardare quelle pagine come se fosse la prima volta, riconosciamo le parole, le frasi e le strutture ma non l’urto che ognuna di esse provoca cadendo nel nostro animo.

Herman Hesse credo appartenga a quella categoria di rari scrittori che riescono a parlare molte lingue e, in più, ha il raro pregio di farsi trovare quando i tempi sono giusti per essere trovato.

Demian è un po’ così, “piccolo capolavoro” definito da un altro immenso scrittore che è stato Mann. E forse l’aggettivo “piccolo” va un po’ stretto a questo romanzo breve in cui c’è tanta autobiografia di Hesse, che al momento della stesura incontrava Jung, e, anche, un pizzico di autobiografia di ognuno di noi.

Nell’incertezza infantile di Emile Sinclair e le vessazioni subite da Kromer, c’è tutta l’incertezza della nostra fanciullezza, esitante e piena di paure, dubbi sulla propria forza e sulla profondità di tunnel oscuri che il mondo ci mette davanti. Poi c’è l’incontro con un qualcuno o un evento che scatena in noi una riflessione, spesso in controtendenza, qualcosa che stride con la solida struttura a cui ci aggrappiamo, per non perdere quelle poche e traballanti incertezze su cui poggiamo i piedi, mentre saliamo, masso dopo masso, una scala di pietra scolpita nella roccia grezza della nostra esistenza.

Max Demian è uno spirito, un’immagine, un parametro, un sogno ed una realtà, tentatrice e seducente, è un’alterità che ci richiama verso lati nascosti della nostra stessa luna, alla scoperta di quello che siamo, non solo, ma quello che saremo.

Il rapporto fra Sinclair e Demian è un rapporto fra discepolo e maestro, senza mai sfociare nella soggezione, è un questionamento continuo, allo specchio, di un animo tormentato alla ricerca di nuove risposte, a domande che nascono man mano che la crescita, fisica, mentale e spirituale, si impone a noi.

Sinclair cresce, va in una scuola lontana dalla famiglia, legge Novalis e Nietzsche, conosce persone e si perde nel vino, poi si ritrova, perché nel fondo è un curioso, un vivo, qualcuno che non si ferma alla banalità dell’apparenza del reale ma cerca l’oltre, come Demian, come chiunque ascolti la musica che suona lontano, nello spazio immaginato da Pitagora.

Demian è un romanzo di iniziazione che tocca corde profonde, della nostra stessa crescita.

Breve eppure implacabile. Come una pallottola.

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Cacciatore di Androidi – Philip K. Dick

Era da un pezzo che volevo leggere questo classico della letteratura di Fantascienza, conosciuto ai più grazie al cinema. Oggi si sta ritraducendo il titolo in Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, per rimanere più fedeli all’originale Do Androids Dream of Electric Sheep? che non solo è un titolo che trovo geniale ma, in più, è molto più aderente al senso profondo della storia narrata, impastata proprio di Androidi, Sogno e Pecore Elettriche.

Philip K. Dick è un mostro sacro del genere, a cui si devono alcune delle opere che hanno molto impattato l’immaginario collettivo e da cui cinema e serie televisive hanno attinto a piene mani. E’ un autore di cui tornerò a parlare, visto che sto colmando alcune mie antiche lacune e sto rileggendo libri che, fra tanti, mi avevano accompagnato da adolescente.

La scrittura è secca e fredda come un raggio laser della pistola di Rick Deckard, il protagonista, un cacciatore di taglie che sogna di avere, come tutti gli umani del romanzo, un animale vivo, diventato raro e quindi status symbol di una società aberrata ed aberrante, legata a scatole di empatia ed a miti religiosi in cartapesta, fabbricati da sinapsi scadenti e girati in studi cinematografici di bassa lega.

Gli androidi da eliminare sono creature, dalla vita molto breve, che vanno neutralizzati quando riescono ad uscire dal controllo stretto, quando addirittura fuggono da una colonia per rifarsi una vita, sintetica e falsa ma finalmente libera.

Mentre la coscienza umana si affievolisce lentamente, abbarbicata ad una macchina che ha innumerevoli programmi per suggerire stati emozionali, oramai non più generati dal proprio animo abulico, inghiottito dalle sabbie mobili del vuoto, interiore ed esteriore, della depressione in cui è piombata l’esistenza, senza più parametri, senza più vita, che si spegne con inesorabile lentezza.

E’ dagli androidi che riviene un sussulto di vita, è con gli androidi ed il loro cinismo indifferente, almeno all’apparenza, che finisce. Gli androidi non possono provare emozioni, forse, eppure sembrano attaccarsi a qualcosa, a modo loro, diverso, insensato, a volte crudele, eppure reale.

E’ un libro molto bello questo, più profondo di quanto appaia, che passa il dito ruvido nelle onde spiegazzate dell’adipe esistenziale, pigro ed addormentato, dell’uomo moderno, rivolto sempre all’esterno e mai all’interno, in cerca di soluzioni facili ed effimere, invece di colmare i fossi delle proprie mancanze con la propria umanità, distruggendo le scintille, anche quelle robotiche ed elettriche, altrui.

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Acque Morte — William Somerset Maugham

Un medico radiato, oppiomane, da qualche parte in oriente.
Uno skipper ed un ragazzo belloccio, dal passato oscuro, in giro per mare, là dove erano stabiliti gli olandesi, un omone danese, dal gran cuore e troppo sensibile per una vita di disillusione, le donne.

Un romanzo che si rivela pian piano, ognuno in fuga da qualcosa, alla ricerca di una nuova identità o di una nuova vita, prima di essere recuperati da quella di prima. Ma si può davvero sfuggire a ciò che si è ? Non si ricade nello stesso errore, che si presenta con solo una maschera diversa?

Un uomo che traduce un poema portoghese, sua figlia, bella e sfuggente, vestita di candore eppure spregiudicata, come lo è la voglia di vita, di graffiare sulla tela per lasciare colore e allontanare il dolore.

Ma alla fine siamo tutti ripresi dal nostro destino, spesso amaro e ineluttabilmente fosco, come una condanna da cui non si riesce ad evadere se non con un totale cambiamento del proprio animo, o con l’oppio.

Acque morte di William Somerset Maugham non è scrittura, è la delicatezza di una gouache che rappresenta un arcipelago orientale di dubbio, debolezza e oppio.

Uno stile elegante e raffinato che mi è inaccessibile, a cui posso solo guardare con stizzita e gelosa ammirazione.