Filosofeggiando, Riflessioni, Self-Improvement

La Matrice

C’è una matrice impressa, profonda, sotto la sabbia compatta come pelle che ricopre i muscoli, quelli pulsanti, rossi, legati da tendini, bianchi come neve, perfetti. E’ la matrice che si stampa, lettera dopo lettera, codice dopo codice, elicoidale, globulosa, in ogni angolo del nostro essere, mentre il liquido amniotico ci avvolge e galleggiamo incoscienti della firma che portiamo dentro, la nostra, l’unica, immutabile.

Nella vita si evolve, si cambia ma mai natura, solo atteggiamento, gli occhi guardano con più lucidità, quando la presbiopia compensa la miopia sociale che ci ha obnubilato, per anni, immaturi e dolorosi. La luce è rifratta dal cristallino e la forma, la nostra, diventa diversa, più lunga, solida, con l’ombra attaccata, come con le unghie, senza più vergogna.

Ma non si cambia la matrice primordiale, chi siamo, cosa ci fa davvero palpitare, emozionare, saettare la nostra intelligenza, proiettata in uno spazio buio ma pieno di possibili.

L’ho capito tardi, l’ho accettato ancora più tardi.

Ho provato a riprogrammarmi, come se potessi strapparmi di dosso una patina diventata vecchia, volevo indossare un vestito nuovo, come se potessi nascondermi da ciò che ero, ciò che sono. Mi sono inventato modello di uno stilista calmo e posato, distante, bleso e integrato, fra sorrisi di personaggi ambigui, insopportabili, e di altri più simpatici, balbettanti, fragili, forse come me, che avevano l’apparenza confortante di ipotesi amicali.

Ho sfilato davanti allo specchio, roteando, una volta a destra, un’altra a sinistra, perplesso da quel mantello troppo lezioso che mi avvolgeva; svolazzante, fatto di pizzo e trasparenze, come quello di una puttana in un bordello degli anni ’30, compiacente e civettuola, fino alla notte quando il trucco cola, nero, come la coscienza, sulle guance ancora rotonde, di risate sincere e di alcool assorbito male, come una sfida lanciata, con un guanto sdrucito, alla vita che resta indecifrabile.

Il marchio di chi siamo è impresso a fuoco, scintillante e dorato, come un bacio; non è una condanna, è un miracolo, un dono stocastico di unicità irripetibile.

L’ho capito tardi, l’ho accettato ancora più tardi.

Ho accettato ancora più tardi che non mi interessava più ciò che si possa pensare di me, che la scintilla che mi anima non sia quella sbagliata ma è semplicemente la mia, col furore esistenziale che mi è proprio, avido di vita, curioso e intransigente, spettacolare e implacabile, come una mossa su una scacchiera, quella perfetta, brillante, venuta dal nulla, arrivata confezionata in carta di raso e nastro d’argento, con l’eleganza che solo i regali della mente hanno.

Mi sento in colpa per il tempo che ho sprecato a nascondermi ai miei stessi occhi, vergognoso del mio essere disallineato su frequenze diverse, disarticolato, indefinibile da dizionari che non fossero i miei, fustigato da sensi di colpa figli dell’altrui inadeguatezza. Mi son maltrattato, in nome di un rispetto teorico, ho accettato condanne per delitti mai commessi, salito scale, faticosamente, per poi riscenderle, fino agli inferi, mi sono incarnato in Sisifo per anni, ho spinto un masso sulla montagna e l’ho raccolto di nuovo a valle, per poi spingerlo ancora, per convenienza altrui e imbecillità mia.

Sono stato attraversato da un’antica passione, come da una corrente, ho rivisto geometrie, i miei occhi si sono mossi velocemente, i riflessi hanno iniziato a spazzare via la frustrazione della ruggine che aveva ricoperto ingranaggi nascosti in cantina, per la stolta idea di non doverli più utilizzare in nome della nuova faccia che volevo indossare, come maschera, di azoto liquido per coprire le cicatrici e spegnere le fiamme che ardevano un tempo.

Un sorriso compiaciuto, l’eco di una musica lontana, come una storiella di quand’ero bambino, una fila di lato fra capelli color cenere, un incedere timido, mi vengo incontro mentre ho in mano una fotografia, la mia di quando ero felice, abbracciato ai miei genitori, risoluto e divertente, mentre con le piccole dita accarezzavo il viso di mia madre e mio padre, mentre muovevo cavalli e legno, bianco e nero, lungo diagonali che sembravano infinite ma che si ricongiungevano in un disegno che mi si era costruito, come mattoncini colorati, nella mente libera.

Mi dispiace non aver saputo proteggermi meglio, mi dispiace non aver capito prima che dovevo costruire il mio Castrum per lasciar riposare quella matrice primordiale che ribolliva in me, al sicuro di un accampamento fortificato. Ho lasciato che la lava colasse sulle pendici, come fosse normale, come sangue che ribolle e viene sputato da una ferita e non come il fuoco sacro della forgia di Efesto, dove si batte il ferro per l’armatura di eroi che combattono, ogni giorno, per tracciare il cammino della virtù al di fuori della foresta, afosa e lattiginosa, della mediocrità.

La passione, dai molti volti, che arde nei bracieri della nostra anima è l’espressione di quella matrice originaria, di ciò che siamo fatti, è la guardiana della porta del nostro essere, è la guida lungimirante che ci riporta sulla nostra strada quando l’abbiamo smarrita.

Ora la riconosco, ne vedo il volto benevolo, ne ricordo i moniti e ricordo tutte le volte che ho provato a sfuggirle. Paziente ha aspettato il mio ritorno, per riabbracciarmi, ogni volta, perché tornando da lei ero tornato davvero a casa, nella mia casa.

Sono tornato di nuovo. Ed è una casa bellissima.
E stavolta ho intenzione di rimanerci per sempre.

Filosofeggiando, Riflessioni

Sumo

Mi appassiono facilmente a cose che suscitano la mia attenzione, quando poi scopro universi da esplorare, pieni di sfaccettature e, per di più, lontani dalla mia concezione delle cose, sono ancora più affascinato, perché amo imparare, capire, lasciarmi penetrare dal senso profondo che posso intercettare.

E’ così che, da anni, è nata la mia segreta passione, bislacca, per il Sumo, che seguo, con bramosia, lungo i maggiori tornei nazionali giapponesi.

Il Sumo è una lotta molto antica, un po’ come la nostra lotta greco-romana, la prima traccia risale al 712, è citato nel Kojiki, che tradotto letteralmente significa “Cronaca dei fatti antichi”, che è un libro in cui si narra la nascita, mitologica, del Giappone e delle divinità dello Scintoismo.

I due lottatori si affrontano su un ring circolare e l’obiettivo è spingere l’altro fuori dal ring o fargli appoggiare a terra altro che la sola pianta dei piedi.

Prima di ogni combattimento si svolgono dei riti, perché, pare, il Sumo sia nato come una sorta di rituale religioso dedicato agli dei.

Ed è proprio quest’aura mistica, che spesso avviluppa le manifestazioni orientali, che arricchisce ancora di più il combattimento che diventa una sorta di metafora della lotta di ognuno di noi nei confronti delle difficoltà della vita, una lotta di giganti, di poderose forze contrapposte che danzano sul disco rappresentazione del cielo o della circolarità sferica del nostro pianeta.

L’incontro dura spesso pochi secondi, è in un istante, che ci sembra un’eternità, che si risolvono e svoltano le nostre vite. Bisogna trovare soluzioni rapide, non essere ciechi nell’attacco né troppo accorti nella difesa, non sarà la forza bruta ad essere la chiave, neanche la sola furbizia. Bisogna essere pronti, preparati, rapidi, pesanti ma agili, tutto e il contrario di tutto, spingere quando c’è da spingere, girare quando c’è da girare, cedere quando si può sfruttare il peso dell’avversario.

E’ danza, dove ogni movimento è codificato ma non la sequenza, come in uno spartito musicale si susseguono delle note, in uno spazio stretto, per comporre un combattimento disseccato all’essenziale, il Sumo è breve, rapido, brutale, è l’haiku della lotta.

Un torneo dura lungo più combattimenti, vince chi ne vince di più, non si gioca tutto in un incontro, ci sono più opportunità, proprio come nella vita, ci sono “match” che si creano con persone con cui ci troviamo bene da subito, altre ci mettono in difficoltà, perdiamo incontri facili, vinciamo quelli che non avremmo pensato di vincere, ci dobbiamo aggrappare alla nostra resistenza mentale e fisica, se vogliamo arrivare fino in fondo, difendendo innanzitutto la nostra dignità, per non uscire vinti non da un combattimento ma dal torneo.

Lo sconfitto rende omaggio con un inchino al vincitore, è un omaggio a chi ha saputo essere più forte e costante di noi, dandogli appuntamento al prossimo incontro, dove bisognerà trovare la porta d’ingresso esatta, per spingere e girare, destabilizzare, con coraggio, fulmineo, di un istante che diventa divino. Una sconfitta è opportunità di crescita, ringraziamo il nostro avversario che ci ha insegnato cosa non fare, ci ha reso ancora più grandi, forti e indomiti.

Il Sumo fa spesso sorridere gli occidentali, lottatori giganti e sovrappeso che fanno gesti strani, si schiaffeggiano i quadricipiti e lanciano sale sul ring, l’arbitro in vestito tradizionale e con un ventaglio, sembra una rappresentazione teatrale, come nel teatro del No tradizionale, ma è una rappresentazione teatrale. Tutto è rito, tutto è metafora, tutto è perché serviamo gli dei, provando ad avvicinarci ad essi, col sacrificio, lo sforzo, il sorriso e l’umiltà. Lotta, vita e morte, non c’è altro, la gloria è effimera, al prossimo combattimento può correre altrove, oppure restare, ciò che conta è lottare, per vivere e far vivere.

Il Sumo è una forma d’arte, di spiritualità, un’eco del passato che riverbera ancora oggi, uno scontro fra titani che si materializza davanti ai nostri occhi, un combattimento atemporale, nel vuoto dello spazio, che si risolve in un momento, perché chi domina l’eternità non guarda al tempo ma al sublime del gesto creatore figlio di un’idea e dell’azione.

Racconti AB-erranti, Riflessioni, Self-Improvement

NaNoWriMo

Il NaNoWriMo è un’iniziativa nata in USA per spronare scrittori, aspiranti tali ed affermati, a dedicare l’intero mese di novembre, ogni giorno, alla stesura di un manoscritto, tentando di raggiungere l’obiettivo di 50.000 parole, sufficienti per racchiudere un’opera.

Quest’anno, spinto dalla voglia di mettermi di nuovo alla prova, ho deciso di riprovare (sono alla terza partecipazione), lavorando tutti i giorni ad una nuova idea che, contrariamente alle precedenti che ho elaborato, ho voluto nascesse il primo Novembre, con l’inizio di questa sfida, affinché fosse tutto nuovo, giocoso, spontaneo.

Non tutti i giorni sono stati semplici, come ogni lavoro di stesura, ci son momenti in cui ti sembra di annaspare in una palude acquitrinosa, dove ti dimeni senza avanzare di un centimetro. Ma è il combattimento di un giorno qualunque della vita di ogni essere, l’Arte, il processo creativo, ne è solo l’espressione più pura, ma segue la stessa parabola. Ho provato, dunque, a ignorare le insoddisfazioni, per concentrarmi sull’obiettivo finale che, devo dire, si è rivelato raggiungibile, anche con un prodotto finito non troppo confusionario e, tutto sommato, soddisfacente.

Questo nell’immagine in alto, è l’attestato che ottiene ogni scrittore che riesce a scrivere le 50.000 parole entro il 30 novembre, è giusto un souvenir di questo breve viaggio. Ora mi resta in mano un manoscritto, l’ennesimo, da correggere e da perfezionare in un insieme coerente e fluido.

Il punto è che io detesto correggere.

Mi risulta più facile scrivere cento pagine che rileggerne dieci con la matita rossa e blu in mano.

Purtroppo per me, la scrittura, come la musica, somiglia più alla scultura che alla pittura, dove l’impeto creativo può esprimersi più liberamente, magari dando vita a nuove correnti pittoriche, in totale rottura con gli schemi tecnici dell’epoca. Le strutture e confini disegnati dalla sintassi e dalla logica, sono meno elastici, in compenso l’universo concettuale che si vuole esprimere può essere più facilmente definito che in altre forme d’arte. Insomma, come in tutte le imprese, c’è un tipo di lavoro che ci riesce più facilmente e un altro che ci piace meno svolgere.

Il mio è la rilettura e la correzione, non son tanto uomo da microscopio ma da grandangolo .

Riflessioni, Self-Improvement

Ambienti tossici e Schiavitù volontaria…

Gli ambienti tossici son quelle stanze dove entri senza maschera a gas, perché o ti hanno detto di fidarti, come della famiglia, o perché ti senti costretto, come al lavoro.

In entrambi i casi puoi decidere di tornare a respirare cambiando stanza, tutto dipende dal costo che sei disposto a sopportare.

E’ solo questione di valore che dai a te stesso.

Più vuoi essere libero e più il prezzo è caro.

Solo la schiavitù volontaria è gratuita.