Filosofeggiando, Philosophy, Riflessioni

Spiritualità e Materialismo

Associare le religioni alla loro espressione politica è come dire che Seneca era la politica di Nerone o Platone quella Atene.

Filosofia e spiritualità vanno, giustamente per definizione, al di là del confine del materiale, sintetizzarle in strutture rigide, significa liquidare tutta la sfera irrazionale dell’essere umano, come innamorarsi,comporre musica, dipingere o la compassione, ad una sciocchezza da insensati, quando rendere visibile l’invisibile è, forse, l’essenza dell’ essere umano.

Oggi rileggevo Pascal e proprio Seneca e sorridevo pensando a quanti, oggi, soprattutto sui social, li giudicherebbero dei deficienti perché indagano l’animo umano, il proprio rapporto con il soprannaturale, il divino, la religione.

I grandi pensatori hanno impostato quasi tutte le impalcature di pensiero sull’invisibile.

L’essere umano, come sua natura, esplora, viaggia, perché vuol vedere ciò che non conosce, ciò che è misterioso e lontano, come si può pensare che sia solo un elemento economico, funzionale e meccanico, privo di ogni “anima” (mi si conceda l’uso del termine, inteso in senso generale come essenza invisibile interna ad ognuno di noi, potremmo chiamarla coscienza, morale, emozione…)? Come si può pensare che un essere umano sia un cretino solo perché cerca un rapporto con un l’invisibile, riducendo tutto ad un puro frutto di fantasia, perché si prova a sostenere che non ci siano “prove tangibili”? Non è questo stesso un ragionamento carente, miope e, sostanzialmente, da coglione, visto che la prova tangibile per alcuni può essere l’esistenza stessa, come testimoniato da secoli di filosofia e religione, ad ogni angolo del pianeta su cui viviamo? I Maia, Aztechi, Greci, Animisti Africani, Vichinghi, Scintoisti, Buddisti ed Indù sono tutti stati dei gruppi umani di sempliciotti, perché parte della loro vita, se non tutta, è focalizzata sull’immateriale?

Gli egiziani e tutta la loro struttura sociale e religiosa, il loro libro dei morti, la loro mummificazione, era tutta una banale messinscena, erano un popolo di deficienti perché lo dice Pierino87 su un social, perché credevano ad “esseri di fantasia”? Ed intanto come è possibile che gli antichi egizi siano davvero eterni, visto che ancora oggi li studiamo, cercando di perlustrarne i misteri, religiosi e ingegneristici, quando, presumibilmente invece Pierino87 sarà dimenticato ed evacuato, senza colpo ferire, dalla colonna fecale dell’umanità?

Ci vuole più rispetto per le credenze altrui, se proprio si vuole proprio formarsi un’idea (non è obbligatorio, è solo un’opzione, nella vita si può anche serenamente accettare l’altrui visione senza disseccarla con uno sguardo spesso distratto e senza sputare sentenze su tutto e tutti), bisogna provare ad immedesimarsi di più nella prospettiva dell’altro, magari parlargli, provare a capire.

Altrimenti è inutile poi lamentarsi delle guerre, se ne facciamo costantemente nel nostro trascurabile microcosmo.

Rompicoglioni.

Citazioni, Philosophy

Lo Stato per Nietzsche

“Si chiama Stato il più gelido di tutti i gelidi mostri. Esso è gelido anche quando mente, e questa menzogna gli striscia fuori di bocca: “Io, lo Stato, sono il popolo”. Là dove lo Stato finisce comincia l’uomo che non è superfluo, là comincia il canto della necessità, la melodia unica e insostituibile”

(Così parlò Zarathustra)

Filosofeggiando, Philosophy

Importante

Qual è il confine tracciato dalla parola “importante“?

Ce n’è davvero uno, al di fuori della soggettività? L’angolo di rifrazione della luce su un oggetto ci invia segnali che il nostro cervello interpreta diversamente, a seconda dell’angolo, dell’intensità della luce e delle dimensioni dell’oggetto. Ci formiamo idee su ombre, come nella Caverna di Platone, proviamo ad approssimarci alla realtà di ciò che è “importante” ma non vediamo la verità di chi cammina sul filo del rasoio della sua linea “importante“.

E’ tutto così complicato arbitrare fra le linee sulle fotografie del quotidiano di ognuno. Quando iniziamo a vedere con più chiarezza i contorni dei negati freschi, che abbiamo fra le mani, dobbiamo provare ad integrare le foto altrui, che introducono sfocature, sovrapposizioni e sovraesposizioni.

La verità si nasconde continuamente, è ovunque, perché la foto di ognuno è vera, almeno credibile, per il soggetto che la elabora e vive , ma è anche solo ed esclusivamente nella nostra propria fotografia, che stringiamo perché l’abbiamo appena sviluppata, guardando il mondo attorno a noi, apprezzando una nuova brezza che ci accarezza il viso e non vorremmo che schizzi di altri universi, per quanto “importanti“, possano rovinare il ritratto attuale del nostro oggi.

Dove porre il limite perché ciò che non ci frusta in piena schiena, sia “importante” ma non al punto di tralasciare noi, ma neanche gli altri?

Dove porre il limite quando, al contrario, siamo colpiti in pieno petto e tutto il resto ci sembra irrisorio, inane, impercettibile come il residuo di un profumo in un ascensore?

La speranza è uno dei dizionari che ci aiuta a tradurre cosa è “importante“, la razionalità ed anche l’emotività, quel senso acuto che abbiamo disimparato ad ascoltare, che ci suggerisce le direzioni invisibili che pensiamo di prendere solo perché imbocchiamo strade tridimensionali che ci appaiono razionali.

Ma, purtroppo, nulla è davvero “importante” se non ci taglia la giugulare fino a non farci respirare più; non è egoismo o nombrilismo, è il banale cadere delle foglie in autunno, è l’ineluttabile spogliarsi per ritrovare il tronco, nudo, del nostro essere. Ed ognuno avrà il proprio tronco, nudo, nodoso e deforme, su cui la vita ripartirà o forse no, e come in molte cose il segreto della fioritura non riposa nelle nostre mani ma in qualcosa di astratto per alcuni, di divino per altri, fra cui me. Tutti ci spogliamo delle foglie in autunno, foglie che ci sembrano “importanti” eppure alcune ritornano, diverse, altre no.

O, forse, ne tornerà solo una.

E quella sarà la definizione di “importante“.

Filosofeggiando, Philosophy

Le buone intenzioni

Squilibri, non c’è altra definizione per inquadrare lo scollamento fra ciò che si dice e ciò che non si fa. Puntualmente. Come un treno che non è mai stato calendarizzato ma che viaggia, solo in un universo fantastico, di chi lo concepisce, come le traiettorie, immaginifiche, lungo le quali corrono i binari, di poderoso acciaio, delle buone intenzioni.

L’intenzione è l’acciarino da cui nasce una scintilla, ma non sufficiente a scatenare un fuoco, senza un’adeguata preparazione, del terreno, del materiale combustibile; ciò che determina la vampata definitiva è, come in tutto, l’azione.

Consultando il dizionario Treccani, alla voce intenzione trovo questa definizione: “Orientamento della coscienza verso il compimento di un’azione, direzione della volontà verso un determinato fine; può indicare semplicemente il proposito e il desiderio di raggiungere il fine, senza una volontà chiaramente determinata e senza la corrispondente deliberazione di operare per conseguirlo“.

Orientamento della coscienza.

Ma anche, talvolta,

Senza una volontà chiaramente determinata.

La buona intenzione è orientamento verso il bene, non è il bene, non si identifica con esso, eppure chi concepisce la buona intenzione si sente buono, quasi come se avesse compiuto l’opera. Come se la pratica masturbatoria del bene potesse concepire il bene stesso, senza l’utero della Dinamica che porta al doloroso, dolorosissimo, parto dell’Azione.

Ma l’azione innesca, spesso, la reazione. Ed è fra gli orrori disegnati dalla mente ciò che, forse più di tutto, perturba il mare calmo dell’esistenza. Senza azione non muoviamo nessun tipo di onda, nessuna vibrazione, nessuna trasmissione di energia. Ancor meno negativa. E’ il nulla rassicurante in cui riposano i morti che respirano, quelli che perché si aggrappano alla tua camicia, con lo sguardo vuoto ma pieno di speranza che questa volta sarà diverso.

“Si questa volta le mie buone intenzioni le porterò sul piano ruvido e graffiato della realtà, dove la terra si mischia alle gocce di liquidi corporali, dove le unghie si consumano, come le diottrie, per studiare soluzioni al meccanismo complesso della realtà, fisica e immateriale. Stavolta mi tufferò, col coraggio che non ho mai avuto ma che da qualche parte troverò, nella speranza di cambiare”.

Ma neanche la speranza è determinazione e le buone intenzioni si infrangeranno, ancora, sugli scogli appuntiti e neri, levigati dal vento dell’esperienza storica, incrostati di organismi viventi che guarderanno, con sufficienza condiscendente, l’immutabile ripetersi dell’inazione. Sorda ad ogni richiamo, impegnata a guardare nello specchio, appannato da vapore e sporco di rossetto vivo come sangue, i propri occhi arrossati e le occhiaie che provano, anche loro stanche, a lasciarsi cadere per allontanarsi quanto più possibile da quel cranio bianco, levigato, immobile.

E, così, precipita la polvere, come neve, sugli immobili eretti dalle Buone Intenzioni, grattacieli tristi e grigi conficcati come chiodi nell’anima, per formare strade e vicoli bui della città morta della Passività.

Filosofeggiando, Philosophy

Blogging or not Blogging

Le aperture sono un concetto architettonico, fisico, intellettuale. Sono interruzioni in un continuum, a volte sospensioni, o forzature. Brecce nelle quali filtra una luce, ma vai a capire se è perché è lei che vuole filtrare o sei tu che hai voglia che filtri.

Io passo da fasi respiratorie asmatiche, dove la contrazione bronchiale si lascia andare, talvolta, per larghe boccate di aria, come quella che si lascia entrare, nel nostro essere, come durante le meditazioni.

Ma la libera circolazione dell’aria, come tutto, del resto, è solo un movimento che si completa nel nostro essere, come se fosse impermeabile all’esterno, perché noi vogliamo che sia così e, o, impariamo a far essere così.

Io ho imparato a costruire le mie aperture sulle viste che mi appagano; col tempo ho appreso, non senza dolore devo dire, che non esiste un’apertura assoluta, neanche un’apertura buona, se poi fa entrare spifferi e ti fa ammalare. La chiusura, come l’apertura, è una fase che ha tutta la sua legittimità e rispettabilità. A meno che non sia dettata solo dalla voce gracchiante della paura, consigliera mai saggia e ancora meno affidabile.

Amo le mie chiusure, proprio come le mie aperture, sono quasi sempre giochi di ombre in cui mi nascondo o mi rivelo a me stesso. Non che l’alterità non sia interessante o degna, è solo che l’alterità non è che una soggettività guardata da un’altra visuale. Giochi di specchi che si continuano a rifrangere gli uni sugli altri.

E quindi qual è il senso di riprendere a costruire un blog se il destinatario di ogni riflessione è me stesso? Perché pubblicare fuori ciò che tutto sommato è destinato a restare dentro?

Ognuno trova una risposta a questa esigenza, la mia è quella dell’ordine, quella di trovare un’organicità in un tumultuoso succedersi di ragionamenti. Come se tenere traccia, in un archivio coerente, il susseguirsi delle cose, disegnasse una traiettoria che rende più intellegibile un percorso che, quasi sempre, come in molte cose della vita, si rivela all’approssimarsi della sua fine.

Unendo i puntini di una traiettoria, forse, posso imparare a leggere meglio ciò che mi sfugge di me. Perché alla fine, nessuno mette sulla piastrina che passa sotto la lente del proprio microscopio, altro che sé stesso. Ed è giusto così. Dopotutto credo che studiando sè stessi si studi tutto. Basta solo avere il coraggio di confessarselo.