A volte ho l’impressione di lasciare sfuggire fra le dita, come acqua che cade da una fonte nella roccia, una serie di emozioni e sensazioni.
E’ come se la radio sintonizzata su onde sottili, si fosse desincronizzata, come rotta, brutalizzata da segnali di disturbo che sono diventati la colonna sonora abituale, fino a farsi credere come veri.
Com’è difficile guardare costantemente nello specchio limpido del proprio lago, quello posto proprio a metà fra budella e cuore, quello che si increspa non appena ci soffiano sopra i venti della materialità, invadente e violenta, come la cattiveria e l’indifferenza.
Cadono tessere di mosaico mentre avanziamo, ci abituiamo a quei buchi, lasciamo che ci trancino via grossi pezzi del nostro essere, come buoi su un bancone insanguinato, diventiamo esseri tronchi e pensiamo di essere più piccoli, storpi, dimentichiamo di guardare in alto come se una gobba ci pesasse sul collo, rigonfiamento artificiale imbottito da una colpa inesistente.
E, così, d’improvviso, sento di nuovo scorrere un’energia nuova, per raccogliere quell’acqua di fonte nella mia mano incurvata, come fosse una coppa, preziosa e unica, nella quale Ebe versava il nettare degli dei sul Parnaso.
Incollo nuovi pezzi e riempio i buchi, come Frankenstein, pieno di cuciture e cerniere, rivengo alla vita dopo che ogni volta muoio sempre un po’ di più.