Filosofeggiando, Riflessioni

Come Frankenstein

A volte ho l’impressione di lasciare sfuggire fra le dita, come acqua che cade da una fonte nella roccia, una serie di emozioni e sensazioni.

E’ come se la radio sintonizzata su onde sottili, si fosse desincronizzata, come rotta, brutalizzata da segnali di disturbo che sono diventati la colonna sonora abituale, fino a farsi credere come veri.

Com’è difficile guardare costantemente nello specchio limpido del proprio lago, quello posto proprio a metà fra budella e cuore, quello che si increspa non appena ci soffiano sopra i venti della materialità, invadente e violenta, come la cattiveria e l’indifferenza.

Cadono tessere di mosaico mentre avanziamo, ci abituiamo a quei buchi, lasciamo che ci trancino via grossi pezzi del nostro essere, come buoi su un bancone insanguinato, diventiamo esseri tronchi e pensiamo di essere più piccoli, storpi, dimentichiamo di guardare in alto come se una gobba ci pesasse sul collo, rigonfiamento artificiale imbottito da una colpa inesistente.

E, così, d’improvviso, sento di nuovo scorrere un’energia nuova, per raccogliere quell’acqua di fonte nella mia mano incurvata, come fosse una coppa, preziosa e unica, nella quale Ebe versava il nettare degli dei sul Parnaso.

Incollo nuovi pezzi e riempio i buchi, come Frankenstein, pieno di cuciture e cerniere, rivengo alla vita dopo che ogni volta muoio sempre un po’ di più.

Filosofeggiando, Riflessioni, Self-Improvement

Chronos e Kairos

Ho un’ammirazione ed un rispetto sacro per i Greci antichi.

Ai miei occhi, interni ed esterni, sono stati gli investigatori più brillanti della Vita, così come gli Egizi lo furono della Morte.

I Greci non avevano una sola parola per definire il Tempo ma due.

Chronos era il tempo lineare, lo scorrere delle ore, dei giorni, delle stagioni.

Kairos era il tempo della qualità, l’attimo fuggente e magico che va afferrato perché è attraverso di lui che ci si immerge nell’esistenza. Kairos non ha dimensione, non ha lunghezza, non arriva ad un momento preciso, sfugge, vola via, poi ritorna, in silenzio, sussurrando, solo orecchie attente possono intercettare il suo invito ad afferrarlo, per non essere più come prima.

I Greci sapevano che la vita non è solo meccanica, che il tempo non è solo denaro, il Tempo ha molte facce, espressioni, manifestazioni. I Greci, da secoli, ci indicano che la Vita è fatta di momenti che vanno presi al volo, la Vita è fatta non di ore da riempire ma per riempirsi di ore, di qualità, dolci come miele, potenti e veloci come razzi spaziali che ti portano su piani esistenziali che faranno di te una persona stravolta in bene, diversa.

Kairos è il tempo che non ci è nemico, quello che non fa venire le rughe ma le stira, come un chirurgo plastico, perché Lui non ti vuole vecchio, ti vuole nuovo, migliore.

Non nel rumore del quotidiano ma nel silenzio dell’osservazione attenta delle meccaniche esistenziali, come in una Sindrome di Stendhal di fronte al quadro magnifico della Vita, per quanto dura, si percepisce il canto, non malinconico e deprimente di Chronos, dai capelli bianchi e le mani nodose, ma quello gioioso e cristallino del giovinetto Kairos, che porta doni, opportunità, che dilata gli attimi fino a diventare assoluto. Senza misura.

E’ il tempo della libertà che gli dei hanno regalato agli Uomini.

Filosofeggiando, Riflessioni, Self-Improvement

La Matrice

C’è una matrice impressa, profonda, sotto la sabbia compatta come pelle che ricopre i muscoli, quelli pulsanti, rossi, legati da tendini, bianchi come neve, perfetti. E’ la matrice che si stampa, lettera dopo lettera, codice dopo codice, elicoidale, globulosa, in ogni angolo del nostro essere, mentre il liquido amniotico ci avvolge e galleggiamo incoscienti della firma che portiamo dentro, la nostra, l’unica, immutabile.

Nella vita si evolve, si cambia ma mai natura, solo atteggiamento, gli occhi guardano con più lucidità, quando la presbiopia compensa la miopia sociale che ci ha obnubilato, per anni, immaturi e dolorosi. La luce è rifratta dal cristallino e la forma, la nostra, diventa diversa, più lunga, solida, con l’ombra attaccata, come con le unghie, senza più vergogna.

Ma non si cambia la matrice primordiale, chi siamo, cosa ci fa davvero palpitare, emozionare, saettare la nostra intelligenza, proiettata in uno spazio buio ma pieno di possibili.

L’ho capito tardi, l’ho accettato ancora più tardi.

Ho provato a riprogrammarmi, come se potessi strapparmi di dosso una patina diventata vecchia, volevo indossare un vestito nuovo, come se potessi nascondermi da ciò che ero, ciò che sono. Mi sono inventato modello di uno stilista calmo e posato, distante, bleso e integrato, fra sorrisi di personaggi ambigui, insopportabili, e di altri più simpatici, balbettanti, fragili, forse come me, che avevano l’apparenza confortante di ipotesi amicali.

Ho sfilato davanti allo specchio, roteando, una volta a destra, un’altra a sinistra, perplesso da quel mantello troppo lezioso che mi avvolgeva; svolazzante, fatto di pizzo e trasparenze, come quello di una puttana in un bordello degli anni ’30, compiacente e civettuola, fino alla notte quando il trucco cola, nero, come la coscienza, sulle guance ancora rotonde, di risate sincere e di alcool assorbito male, come una sfida lanciata, con un guanto sdrucito, alla vita che resta indecifrabile.

Il marchio di chi siamo è impresso a fuoco, scintillante e dorato, come un bacio; non è una condanna, è un miracolo, un dono stocastico di unicità irripetibile.

L’ho capito tardi, l’ho accettato ancora più tardi.

Ho accettato ancora più tardi che non mi interessava più ciò che si possa pensare di me, che la scintilla che mi anima non sia quella sbagliata ma è semplicemente la mia, col furore esistenziale che mi è proprio, avido di vita, curioso e intransigente, spettacolare e implacabile, come una mossa su una scacchiera, quella perfetta, brillante, venuta dal nulla, arrivata confezionata in carta di raso e nastro d’argento, con l’eleganza che solo i regali della mente hanno.

Mi sento in colpa per il tempo che ho sprecato a nascondermi ai miei stessi occhi, vergognoso del mio essere disallineato su frequenze diverse, disarticolato, indefinibile da dizionari che non fossero i miei, fustigato da sensi di colpa figli dell’altrui inadeguatezza. Mi son maltrattato, in nome di un rispetto teorico, ho accettato condanne per delitti mai commessi, salito scale, faticosamente, per poi riscenderle, fino agli inferi, mi sono incarnato in Sisifo per anni, ho spinto un masso sulla montagna e l’ho raccolto di nuovo a valle, per poi spingerlo ancora, per convenienza altrui e imbecillità mia.

Sono stato attraversato da un’antica passione, come da una corrente, ho rivisto geometrie, i miei occhi si sono mossi velocemente, i riflessi hanno iniziato a spazzare via la frustrazione della ruggine che aveva ricoperto ingranaggi nascosti in cantina, per la stolta idea di non doverli più utilizzare in nome della nuova faccia che volevo indossare, come maschera, di azoto liquido per coprire le cicatrici e spegnere le fiamme che ardevano un tempo.

Un sorriso compiaciuto, l’eco di una musica lontana, come una storiella di quand’ero bambino, una fila di lato fra capelli color cenere, un incedere timido, mi vengo incontro mentre ho in mano una fotografia, la mia di quando ero felice, abbracciato ai miei genitori, risoluto e divertente, mentre con le piccole dita accarezzavo il viso di mia madre e mio padre, mentre muovevo cavalli e legno, bianco e nero, lungo diagonali che sembravano infinite ma che si ricongiungevano in un disegno che mi si era costruito, come mattoncini colorati, nella mente libera.

Mi dispiace non aver saputo proteggermi meglio, mi dispiace non aver capito prima che dovevo costruire il mio Castrum per lasciar riposare quella matrice primordiale che ribolliva in me, al sicuro di un accampamento fortificato. Ho lasciato che la lava colasse sulle pendici, come fosse normale, come sangue che ribolle e viene sputato da una ferita e non come il fuoco sacro della forgia di Efesto, dove si batte il ferro per l’armatura di eroi che combattono, ogni giorno, per tracciare il cammino della virtù al di fuori della foresta, afosa e lattiginosa, della mediocrità.

La passione, dai molti volti, che arde nei bracieri della nostra anima è l’espressione di quella matrice originaria, di ciò che siamo fatti, è la guardiana della porta del nostro essere, è la guida lungimirante che ci riporta sulla nostra strada quando l’abbiamo smarrita.

Ora la riconosco, ne vedo il volto benevolo, ne ricordo i moniti e ricordo tutte le volte che ho provato a sfuggirle. Paziente ha aspettato il mio ritorno, per riabbracciarmi, ogni volta, perché tornando da lei ero tornato davvero a casa, nella mia casa.

Sono tornato di nuovo. Ed è una casa bellissima.
E stavolta ho intenzione di rimanerci per sempre.

Filosofeggiando, Riflessioni

Sumo

Mi appassiono facilmente a cose che suscitano la mia attenzione, quando poi scopro universi da esplorare, pieni di sfaccettature e, per di più, lontani dalla mia concezione delle cose, sono ancora più affascinato, perché amo imparare, capire, lasciarmi penetrare dal senso profondo che posso intercettare.

E’ così che, da anni, è nata la mia segreta passione, bislacca, per il Sumo, che seguo, con bramosia, lungo i maggiori tornei nazionali giapponesi.

Il Sumo è una lotta molto antica, un po’ come la nostra lotta greco-romana, la prima traccia risale al 712, è citato nel Kojiki, che tradotto letteralmente significa “Cronaca dei fatti antichi”, che è un libro in cui si narra la nascita, mitologica, del Giappone e delle divinità dello Scintoismo.

I due lottatori si affrontano su un ring circolare e l’obiettivo è spingere l’altro fuori dal ring o fargli appoggiare a terra altro che la sola pianta dei piedi.

Prima di ogni combattimento si svolgono dei riti, perché, pare, il Sumo sia nato come una sorta di rituale religioso dedicato agli dei.

Ed è proprio quest’aura mistica, che spesso avviluppa le manifestazioni orientali, che arricchisce ancora di più il combattimento che diventa una sorta di metafora della lotta di ognuno di noi nei confronti delle difficoltà della vita, una lotta di giganti, di poderose forze contrapposte che danzano sul disco rappresentazione del cielo o della circolarità sferica del nostro pianeta.

L’incontro dura spesso pochi secondi, è in un istante, che ci sembra un’eternità, che si risolvono e svoltano le nostre vite. Bisogna trovare soluzioni rapide, non essere ciechi nell’attacco né troppo accorti nella difesa, non sarà la forza bruta ad essere la chiave, neanche la sola furbizia. Bisogna essere pronti, preparati, rapidi, pesanti ma agili, tutto e il contrario di tutto, spingere quando c’è da spingere, girare quando c’è da girare, cedere quando si può sfruttare il peso dell’avversario.

E’ danza, dove ogni movimento è codificato ma non la sequenza, come in uno spartito musicale si susseguono delle note, in uno spazio stretto, per comporre un combattimento disseccato all’essenziale, il Sumo è breve, rapido, brutale, è l’haiku della lotta.

Un torneo dura lungo più combattimenti, vince chi ne vince di più, non si gioca tutto in un incontro, ci sono più opportunità, proprio come nella vita, ci sono “match” che si creano con persone con cui ci troviamo bene da subito, altre ci mettono in difficoltà, perdiamo incontri facili, vinciamo quelli che non avremmo pensato di vincere, ci dobbiamo aggrappare alla nostra resistenza mentale e fisica, se vogliamo arrivare fino in fondo, difendendo innanzitutto la nostra dignità, per non uscire vinti non da un combattimento ma dal torneo.

Lo sconfitto rende omaggio con un inchino al vincitore, è un omaggio a chi ha saputo essere più forte e costante di noi, dandogli appuntamento al prossimo incontro, dove bisognerà trovare la porta d’ingresso esatta, per spingere e girare, destabilizzare, con coraggio, fulmineo, di un istante che diventa divino. Una sconfitta è opportunità di crescita, ringraziamo il nostro avversario che ci ha insegnato cosa non fare, ci ha reso ancora più grandi, forti e indomiti.

Il Sumo fa spesso sorridere gli occidentali, lottatori giganti e sovrappeso che fanno gesti strani, si schiaffeggiano i quadricipiti e lanciano sale sul ring, l’arbitro in vestito tradizionale e con un ventaglio, sembra una rappresentazione teatrale, come nel teatro del No tradizionale, ma è una rappresentazione teatrale. Tutto è rito, tutto è metafora, tutto è perché serviamo gli dei, provando ad avvicinarci ad essi, col sacrificio, lo sforzo, il sorriso e l’umiltà. Lotta, vita e morte, non c’è altro, la gloria è effimera, al prossimo combattimento può correre altrove, oppure restare, ciò che conta è lottare, per vivere e far vivere.

Il Sumo è una forma d’arte, di spiritualità, un’eco del passato che riverbera ancora oggi, uno scontro fra titani che si materializza davanti ai nostri occhi, un combattimento atemporale, nel vuoto dello spazio, che si risolve in un momento, perché chi domina l’eternità non guarda al tempo ma al sublime del gesto creatore figlio di un’idea e dell’azione.

Filosofeggiando, Riflessioni

Io sono un solitario

Io sono un solitario.

Ho sempre amato conoscere persone, ho avuto decine di amici, più o meno di valore, e quando uscivo con loro mi divertivo e mi piaceva divertire, scherzare, ironizzare, polemizzare, sorridere, sarcastico, talvolta caustico ma sempre immerso totalmente nella serate, con la compagnia che avevo scelto per condividerle.

Ma resto strutturalmente, immutabilmente, ineffabilmente un solitario.

Quell’immersione era espressione del mio voler partecipare alla mia vita, non assistere al suo scorrere; volevo sperimentare e conoscere ciò che non mi apparteneva, ho cercato la crescita e la soddisfazione nell’accettazione, nella centralità, talvolta periferica, ho brillato per assenza come per presenza. Mi sono circondato di un affetto che mi è mancato, con l’ingenuità di credere che si potesse colmare un fosso scavato dai colpi di mortaio implacabile, su un terreno troppo giovane per assorbirli.

Alla fin fine, come tutti, ho finto che certe cose potessero essere sufficienti, che la compagnia fosse il contrario della solitudine, come un dizionario. Solo che la vita non funziona con le definizioni, ma con l’evoluzione sulla calcificazione su fratture ripetute, attorno al tessuto cicatriziale del nostro essere dilaniato che rimane e rimarrà sensibile.

Quindi, tutto sommato, amavo la compagnia che mi distraeva, e sono stato la compagnia che ha distratto e, con la maturità, ritengo che sia sempre un po’ così: siamo funzionali a colmare solitudini altrui, come noi proviamo a colmare le nostre, lo scambio effettivo è istantaneo, come in una polaroid. Il susseguirsi di polaroid non fanno un film ma solo un album fotografico, talvolta bello, molto bello, più spesso brutto, ma, in ogni caso, disorganico, senza alcun legame con la continuità temporale che resta solo un balsamo per le nostre incertezze, il training autogeno della nostra volontà di stabilità, in un universo, interno ed esterno, instabile, eruttivo, tormentato per sua stessa natura, destinato alla mutazione perenne, secondo dopo secondo.

Con le relazioni impariamo a dissimulare la nostra emotività, per non essere presi in giro, incompresi o semplicemente inascoltati. Parliamo, quasi sempre di cose che restano sulla superficie, del riflesso di raggi solari sulle piccole increspature che movimentano la tavola marina, perché, tanto, chi se ne importa di inabissarsi con la maschera, in apnea, in profondità nelle quali, spesso, non ci sono neanche pesci tropicali o tesori fra relitti di galeoni? Noi stessi, ce ne importiamo davvero di esplorare le profondità altrui, senza poi finire a parlare di noi, prenderci ad esempio, misurare le cose col sestante che ci siamo fabbricati per orientarci, solo ed esclusivamente, nel nostro cielo?

Mi sono sempre ritenuto qualcuno con buone capacità di ascolto e compassione, è spesso stato il mio ruolo, per cui mi sono portato volontario, sempre con grande passione e intriso di buone intenzioni, un ruolo che mi piaceva e che ho coperto volentieri. Poi ho iniziato ad ascoltare e a provare compassione per tutto ciò che non avevo mai detto a nessuno, neanche a me. Da quando ho iniziato a parlarmi di più, ho smesso di intrattenere gli altri e di usare i cerotti sulle loro ferite perché li spendevo sulle mie. Così piano piano sono diventato inutile e, dopo un primo momento di amaro sgomento, mi sono reso conto che non era uno sgarbo rivolto a me, come persona, ma avevo solo cambiato di funzione, acquisito nuove competenze, e quella funzione e competenze non erano previste nell’organigramma di quel tipo di impresa per la traiettoria che si era prefissata. Simple as that.

Alla fine siamo tutti dei tram sui quali le persone salgono per un tragitto, poi scendono, a volte senza neanche ringraziare l’autista, ma poi ne salgono altre, per un nuovo tragitto, poi scenderanno, e così via. Noi facciamo lo stesso, magari senza rendercene conto, saliamo e scendiamo da treni perché vogliamo esplorare nuovi quartieri e territori, poi scegliamo direzioni che ci interessano e lasciamo andare quei vagoni al loro destino, lontano e diverso dal nostro. E’ un gioco di scambi, continuo e, ineluttabilmente, solitario.

Ed è anche per questo che ho smesso, progressivamente, di parlare, perché nessuno ascolta, e ne ha tutto il diritto, perché forse non sono disposto più ad ascoltare neanche io, perché se proprio devo parlare, preferisco farlo con chi scenderà all’ultima fermata, assieme a me. E sarà la fermata in cui il treno sarà vuoto. E voglio avere la forza di tenermi per mano, perché se non lo faccio io, non lo farà nessuno.

Ma è solo la visione, magari sbagliata, di chi è strutturalmente, immutabilmente, ineffabilmente un solitario.

Filosofeggiando, Philosophy, Riflessioni

Spiritualità e Materialismo

Associare le religioni alla loro espressione politica è come dire che Seneca era la politica di Nerone o Platone quella Atene.

Filosofia e spiritualità vanno, giustamente per definizione, al di là del confine del materiale, sintetizzarle in strutture rigide, significa liquidare tutta la sfera irrazionale dell’essere umano, come innamorarsi,comporre musica, dipingere o la compassione, ad una sciocchezza da insensati, quando rendere visibile l’invisibile è, forse, l’essenza dell’ essere umano.

Oggi rileggevo Pascal e proprio Seneca e sorridevo pensando a quanti, oggi, soprattutto sui social, li giudicherebbero dei deficienti perché indagano l’animo umano, il proprio rapporto con il soprannaturale, il divino, la religione.

I grandi pensatori hanno impostato quasi tutte le impalcature di pensiero sull’invisibile.

L’essere umano, come sua natura, esplora, viaggia, perché vuol vedere ciò che non conosce, ciò che è misterioso e lontano, come si può pensare che sia solo un elemento economico, funzionale e meccanico, privo di ogni “anima” (mi si conceda l’uso del termine, inteso in senso generale come essenza invisibile interna ad ognuno di noi, potremmo chiamarla coscienza, morale, emozione…)? Come si può pensare che un essere umano sia un cretino solo perché cerca un rapporto con un l’invisibile, riducendo tutto ad un puro frutto di fantasia, perché si prova a sostenere che non ci siano “prove tangibili”? Non è questo stesso un ragionamento carente, miope e, sostanzialmente, da coglione, visto che la prova tangibile per alcuni può essere l’esistenza stessa, come testimoniato da secoli di filosofia e religione, ad ogni angolo del pianeta su cui viviamo? I Maia, Aztechi, Greci, Animisti Africani, Vichinghi, Scintoisti, Buddisti ed Indù sono tutti stati dei gruppi umani di sempliciotti, perché parte della loro vita, se non tutta, è focalizzata sull’immateriale?

Gli egiziani e tutta la loro struttura sociale e religiosa, il loro libro dei morti, la loro mummificazione, era tutta una banale messinscena, erano un popolo di deficienti perché lo dice Pierino87 su un social, perché credevano ad “esseri di fantasia”? Ed intanto come è possibile che gli antichi egizi siano davvero eterni, visto che ancora oggi li studiamo, cercando di perlustrarne i misteri, religiosi e ingegneristici, quando, presumibilmente invece Pierino87 sarà dimenticato ed evacuato, senza colpo ferire, dalla colonna fecale dell’umanità?

Ci vuole più rispetto per le credenze altrui, se proprio si vuole proprio formarsi un’idea (non è obbligatorio, è solo un’opzione, nella vita si può anche serenamente accettare l’altrui visione senza disseccarla con uno sguardo spesso distratto e senza sputare sentenze su tutto e tutti), bisogna provare ad immedesimarsi di più nella prospettiva dell’altro, magari parlargli, provare a capire.

Altrimenti è inutile poi lamentarsi delle guerre, se ne facciamo costantemente nel nostro trascurabile microcosmo.

Rompicoglioni.

Filosofeggiando, Riflessioni

L’approvazione

L’approvazione è un bisogno artificiale.

L’appagamento silenzioso, prezioso e delicato, quello misurato con il metro giallo della sarta invisibile che è la nostra coscienza, si è diluito in un torrente sintetico e inquinato di ciò che è stato battezzato “coscienza sociale”. Questo fiume melmoso e opaco, roboante, che precipita verso una valle, urlando canzoni fatte di rumore, inghiotte ogni eccellenza individuale che non sappia affermare, per un legittimo e umano pudore, la propria indipendenza.

E’ un giudice severo come un teschio, che picchia il martelletto, condanna l’individuo, strangolandolo con le mani nodose e secche, come artigli di rapace. La non conformità ai canoni, quasi sempre vacui, privi di ogni sostanza intellettuale e umanità, è punita con l’emarginazione, l’esclusione, l’esilio in un’isola remota, dove ognuno inizia a coltivare un giardino colorato, in cui piangere la propria essenza, quasi perduta, come un profumo di fiori sul finire dell’estate.

La fabbricazione del bisogno di approvazione trucca la stadera su cui si pesano le stature sociali, il rango, la toga rossa nella quale ci si può avvolgere oppure no. E’ la lunga marcia dell’uomo che cammina fino a cadere esausto, oramai privo di ogni strato di grasso che separa la pelle dai muscoli, dilatati in uno sforzo irragionevole, come i nervi, tesissimi, come archi nell’atto di scoccare una, dieci, cento frecce, contro nemici immaginari, costrutti invisibili che minacciano la nostra apparenza, che compromettono l’approvazione, sacra, divinizzata, calcolata con numero di elettori, di likes, di followers, di discepoli, di dozzine di entità, spesso posticce come parrucchini a coprire la calvizie di crani tragicamente vuoti, riempiti di copia e incolla, di frasi ad effetto sotto culi ritoccati con photoshop.

L’approvazione è diventata più erotica del piacere estetico, di quello fisico, di una vittoria reale su un campo ostico giocato sul terreno, pesante e bagnato, dell’esistenza pura. Anche virtuale, l’approvazione è necessaria per andare avanti, sin dal mattino presto, nella luce blu o nei “blip” cacofonici di un telefono, dai bordi arrotondati e dai denti aguzzi, come quelli dei piranha, che rosicchiano le carni del tuo tempo, oramai perso, come il Minotauro, in un dedalo di app e cuoricini di amore finto.

L’approvazione è un bisogno artificiale, basta uno specchio e due occhi puliti.

Il resto non conta più nulla. E’ sfondo in dissolvenza.

Filosofeggiando, Riflessioni

Apparire e sentire

Non mi interessa apparire buono, ma sentirmi giusto

Ieri su un social scrivevo questa frase, di getto. Rileggendola ritengo sia quella che mi fotografi appieno, almeno oggi.

Il peso dell’apparenza, perché lo sguardo altrui posato su di noi non si mostri severo e corrucciato, è così opprimente da schiacciare quello del profondo senso di giustizia che alberga fra le pieghe della nostra, troppo insicura, coscienza.

Il consenso e l’approvazione altrui sembrano un bollino verde apposto su una banana, per attestarne la provenienza. Ci rassicura perché asseconda il bisogno, direi naturale, di esser accettati nel gruppo, nella tribù, nel contesto sociale in cui, casualmente, ci muoviamo.

E’ seguendo questa illusione che ci amputiamo, sanguiniamo in silenzio, ci trasciniamo i moncherini del nostro essere, con dignità, asfissiati fino a diventare cianotici, convinti sia per una causa maggiore.

Poi, quasi sempre dopo una curva pericolosa, di quelle cieche e a strapiombo, dove rischi di perdere tutto, che senti un’eco provenire da una vallata sconosciuta, uno squarcio nel sipario carminio dietro il quale bisbigliano le voci dello scrupolo, che ti fa percepire la vacuità di certificazioni posticce. Scintillanti medaglie e lustrini da sfoggiare sulle giacche sdrucite della nostra immagine pubblica ma che, non ci faranno, comunque, mai accettare nella nostra interezza, se non dall’amore di chi ci amerebbe comunque, anche senza bollini.

E cosa c’è di più appagante della sufficienza di un amore così puro e cristallino, materno, pieno, rotondo ed assoluto? C’è davvero altro di cui curarsi?


La vera tribù a cui ho sempre ambito appartenere è quella che comunica senza voce, in cui ci si riconosce in una Verità comune, senza sguardi severi, senza giudizi, senza bollini. Quella che ci sveste della vestaglia di finta seta dell’approvazione, la appende su un paravento di legno intagliato, a memoria del nostro faticoso passato, e ci lascia, nudi, davanti al bacino di pietra, come fonte battesimale, nel quale immergerci per ritrovare, una volta e per tutte, il nostro esser Giusti.

Per non barattarlo contro nessuna finta carezza e, così, non lasciarlo andar via mai più.

Filosofeggiando

De Meditatione

La Meditazione, come molte cose che sono state liquidate con sufficienza dalla cecità, spacciata per luce, della ragione dell’ultimo secolo, non è null’altro che uno stato naturale, costante e sublime, dell’essere umano.

I sorrisini deficienti che l’hanno fatta passare come una pratica New Age, per psicotici invaghiti delle pratiche da santoni orientali, ignorano (altrimenti non sarebbero deficienti, di cultura appunto) che la meditazione è uno stato di grande concentrazione, che eleva l’uomo, portandolo ad una maggiore comprensione di sé e dell’ambiente circostante.

Il dizionario Treccani definisce la Meditazione così: concentrazione della mente nella speculazione e contemplazione di verità religiose, o di problemi filosofici o morali.

“Concentrazione della mente”. Non è un atto di abbandono fanatico, è un atto, positivo, di amplificazione delle proprie capacità cerebrali al fine di speculare e contemplare.

Lo speculare reca in sé il concetto stesso del ragionamento e anche i cretini ne sono affascinati e coscienti della portata, tant’è che si lanciano in speculazioni, per quanto prive di senso.

Il contemplare, invece, è un atto che si è andato diluendo e che abbiamo disimparato a praticare con regolarità, a vantaggio della distrazione, della velocità, del volo supersonico del pensiero diventato incapace di focalizzarsi.

Sempre citando il dizionario Treccani, la definizione di contemplare che ci propone è: Guardare a lungo, osservare con attenzione cosa che desti meraviglia o ammirazione.

Osservare con attenzione.

In buona sostanza, da qualunque angolo si guardi, non c’è nulla di passivo nella Meditazione. Era meditazione quella dei mistici che hanno fondato le grandi religioni, era meditazione quella degli sciamani amerindiani, era meditazione il parto filosofico degli antichi greci, così come quello dei moderni, dei cartesiani, di Spinoza, di Kant.

Quest’ultimo proprio si è interessato della Metafisica, definendola: una scienza che consiste a progredire dalla conoscenza del sensibile a quella del soprasensibile.

L’ultimo secolo si è compiaciuto del suo razionalismo, arido e bestiale, che ha rinnegato ogni “soprasensibile”, liquidandolo come roba da retrogradi e bigotti, fondamentalmente dando del coglione non solo a preti e alle nonnine col rosario in mano, come fossero delle credulone da deridere, ma anche a Kant o Aristotele che sul soprasensibile hanno meditato, speculato e della cui Verità hanno contemplato l’essenza per provare a spiegarla.

La politica e le università si sono spogliate di ogni forma meditativa, del pensiero politico, la prima, della cultura, la seconda, per banalizzare in modo binario l’esistenza umana ad un prodotto tutto sommato economico, a meri fini pensionistico-assistenziali della collettività, affinché la collettività stessa si identifichi in questo ruolo, abdicando ad ogni indagine del proprio soprasensibile. Fondamentalmente rinnegando la propria umanità, in res ipsa.

Si, ma che cazzo vuoi dire? Mi si potrebbe legittimamente chiedere.

Voglio dire che bisogna, proprio bisogna, necesse est, riprendere a meditare. Uscire quanto più possibile dal generale, per tornare nel nostro particolare, perché solo così esiste un generale, altrimenti c’è una massa informe non di individui, ma di automi.

La meditazione, in qualunque sua forma, dalla mistica religiosa a quella degli yogi, a quella del pittore che cerca di capire le ombre di Rembrandt, è cardine dell’essere umano. E’ l’atto dell’uomo primitivo davanti al firmamento. E’ l’unico modo per ritrovarsi e ritrovare l’altro.

E no, la meditazione in posizione di fior di loto è solo una banalizzazione del concetto stesso di meditazione. Franco Battiato che tanto ha studiato i mistici mediorientali, ha spesso detto che la posizione fisica del corpro non c’entra nulla, c’entra lo stato di concentrazione. E’ da quello che ritroviamo la musica del nostro essere, in concertazione con il resto. Non dalle urla sguaiate delle piazze virtuali o cittadine o, ancor peggio, televisive.

La Meditazione è imparare il silenzio. Proprio come quando si legge o si scrive. E’ atto creativo e non distruttivo. Ergo, è vita.

Filosofeggiando, Philosophy

Importante

Qual è il confine tracciato dalla parola “importante“?

Ce n’è davvero uno, al di fuori della soggettività? L’angolo di rifrazione della luce su un oggetto ci invia segnali che il nostro cervello interpreta diversamente, a seconda dell’angolo, dell’intensità della luce e delle dimensioni dell’oggetto. Ci formiamo idee su ombre, come nella Caverna di Platone, proviamo ad approssimarci alla realtà di ciò che è “importante” ma non vediamo la verità di chi cammina sul filo del rasoio della sua linea “importante“.

E’ tutto così complicato arbitrare fra le linee sulle fotografie del quotidiano di ognuno. Quando iniziamo a vedere con più chiarezza i contorni dei negati freschi, che abbiamo fra le mani, dobbiamo provare ad integrare le foto altrui, che introducono sfocature, sovrapposizioni e sovraesposizioni.

La verità si nasconde continuamente, è ovunque, perché la foto di ognuno è vera, almeno credibile, per il soggetto che la elabora e vive , ma è anche solo ed esclusivamente nella nostra propria fotografia, che stringiamo perché l’abbiamo appena sviluppata, guardando il mondo attorno a noi, apprezzando una nuova brezza che ci accarezza il viso e non vorremmo che schizzi di altri universi, per quanto “importanti“, possano rovinare il ritratto attuale del nostro oggi.

Dove porre il limite perché ciò che non ci frusta in piena schiena, sia “importante” ma non al punto di tralasciare noi, ma neanche gli altri?

Dove porre il limite quando, al contrario, siamo colpiti in pieno petto e tutto il resto ci sembra irrisorio, inane, impercettibile come il residuo di un profumo in un ascensore?

La speranza è uno dei dizionari che ci aiuta a tradurre cosa è “importante“, la razionalità ed anche l’emotività, quel senso acuto che abbiamo disimparato ad ascoltare, che ci suggerisce le direzioni invisibili che pensiamo di prendere solo perché imbocchiamo strade tridimensionali che ci appaiono razionali.

Ma, purtroppo, nulla è davvero “importante” se non ci taglia la giugulare fino a non farci respirare più; non è egoismo o nombrilismo, è il banale cadere delle foglie in autunno, è l’ineluttabile spogliarsi per ritrovare il tronco, nudo, del nostro essere. Ed ognuno avrà il proprio tronco, nudo, nodoso e deforme, su cui la vita ripartirà o forse no, e come in molte cose il segreto della fioritura non riposa nelle nostre mani ma in qualcosa di astratto per alcuni, di divino per altri, fra cui me. Tutti ci spogliamo delle foglie in autunno, foglie che ci sembrano “importanti” eppure alcune ritornano, diverse, altre no.

O, forse, ne tornerà solo una.

E quella sarà la definizione di “importante“.