Filosofeggiando, Riflessioni

Come Frankenstein

A volte ho l’impressione di lasciare sfuggire fra le dita, come acqua che cade da una fonte nella roccia, una serie di emozioni e sensazioni.

E’ come se la radio sintonizzata su onde sottili, si fosse desincronizzata, come rotta, brutalizzata da segnali di disturbo che sono diventati la colonna sonora abituale, fino a farsi credere come veri.

Com’è difficile guardare costantemente nello specchio limpido del proprio lago, quello posto proprio a metà fra budella e cuore, quello che si increspa non appena ci soffiano sopra i venti della materialità, invadente e violenta, come la cattiveria e l’indifferenza.

Cadono tessere di mosaico mentre avanziamo, ci abituiamo a quei buchi, lasciamo che ci trancino via grossi pezzi del nostro essere, come buoi su un bancone insanguinato, diventiamo esseri tronchi e pensiamo di essere più piccoli, storpi, dimentichiamo di guardare in alto come se una gobba ci pesasse sul collo, rigonfiamento artificiale imbottito da una colpa inesistente.

E, così, d’improvviso, sento di nuovo scorrere un’energia nuova, per raccogliere quell’acqua di fonte nella mia mano incurvata, come fosse una coppa, preziosa e unica, nella quale Ebe versava il nettare degli dei sul Parnaso.

Incollo nuovi pezzi e riempio i buchi, come Frankenstein, pieno di cuciture e cerniere, rivengo alla vita dopo che ogni volta muoio sempre un po’ di più.

Filosofeggiando, Riflessioni

L’approvazione

L’approvazione è un bisogno artificiale.

L’appagamento silenzioso, prezioso e delicato, quello misurato con il metro giallo della sarta invisibile che è la nostra coscienza, si è diluito in un torrente sintetico e inquinato di ciò che è stato battezzato “coscienza sociale”. Questo fiume melmoso e opaco, roboante, che precipita verso una valle, urlando canzoni fatte di rumore, inghiotte ogni eccellenza individuale che non sappia affermare, per un legittimo e umano pudore, la propria indipendenza.

E’ un giudice severo come un teschio, che picchia il martelletto, condanna l’individuo, strangolandolo con le mani nodose e secche, come artigli di rapace. La non conformità ai canoni, quasi sempre vacui, privi di ogni sostanza intellettuale e umanità, è punita con l’emarginazione, l’esclusione, l’esilio in un’isola remota, dove ognuno inizia a coltivare un giardino colorato, in cui piangere la propria essenza, quasi perduta, come un profumo di fiori sul finire dell’estate.

La fabbricazione del bisogno di approvazione trucca la stadera su cui si pesano le stature sociali, il rango, la toga rossa nella quale ci si può avvolgere oppure no. E’ la lunga marcia dell’uomo che cammina fino a cadere esausto, oramai privo di ogni strato di grasso che separa la pelle dai muscoli, dilatati in uno sforzo irragionevole, come i nervi, tesissimi, come archi nell’atto di scoccare una, dieci, cento frecce, contro nemici immaginari, costrutti invisibili che minacciano la nostra apparenza, che compromettono l’approvazione, sacra, divinizzata, calcolata con numero di elettori, di likes, di followers, di discepoli, di dozzine di entità, spesso posticce come parrucchini a coprire la calvizie di crani tragicamente vuoti, riempiti di copia e incolla, di frasi ad effetto sotto culi ritoccati con photoshop.

L’approvazione è diventata più erotica del piacere estetico, di quello fisico, di una vittoria reale su un campo ostico giocato sul terreno, pesante e bagnato, dell’esistenza pura. Anche virtuale, l’approvazione è necessaria per andare avanti, sin dal mattino presto, nella luce blu o nei “blip” cacofonici di un telefono, dai bordi arrotondati e dai denti aguzzi, come quelli dei piranha, che rosicchiano le carni del tuo tempo, oramai perso, come il Minotauro, in un dedalo di app e cuoricini di amore finto.

L’approvazione è un bisogno artificiale, basta uno specchio e due occhi puliti.

Il resto non conta più nulla. E’ sfondo in dissolvenza.