Leggere Mauriac è come andare a fare visita al vecchio zio, aristocratico, nella sua casa padronale, fuori città, con un bel viale d’ingresso alberato, i ciottoli a terra e con, all’interno, un camino, con due poltrone vicine, dove sedersi e ascoltare i suoi racconti.
Il suo stile è liscio, come la pelle delle guance sbarbate di fresco, come una camicia che emana il profumo di acqua di colonia, e, con voce calma, tira rasoiate, lucide e letali, alla società, all’animo delle persone, scavandone la loro grettezza, come con un cucchiaino da thé, di argento annerito.
In questo romanzo, duro, durissimo, come un lungo incubo da cui si ha voglia di uscire, da cui si prova a distogliere lo sguardo, per non guardare nel buio, ci racconta la storia di un vecchio avvocato, non lontano dalla morte, che vede i suoi figli e sua moglie, galassie distanti, bisbigliare per ritagliarsi una fetta del suo cospicuo patrimonio.
E’ un uomo che non si è fatto amare, che forse non sa amare, eppure in questo diario annotato prova a ritrovare la sua umanità o, magari, a farla scoprire a chi non ha saputo leggerla, quando ancora era visibile, sul pelo dell’acqua, come una foglia, caduta da un albero raro, alla deriva.
Le noeud de vipères è una fotografia, in bianco e nero, di una famiglia e di una classe sociale, di un modo di vivere o di non vivere, dove, come avrebbe detto Oscar Wilde parlando del cinismo, si conosce il prezzo di ogni cosa ed il valore di nessuna.
Mauriac ha avuto un Nobel per la letteratura, quando il Premio Nobel si occupava ancora di letteratura e non di propaganda prona allo stupidismo politico contemporaneo, e lo ha meritato tutto, è uno scrittore elegante, profondo, attento, vissuto.
Uno di quelli che leggeresti sempre.
Seduto su quella poltrona, accanto al camino.