Citazioni, Self-Improvement

A free person…

“Only a free person can be a happy person. The amount of happiness that you have depends on the amount of freedom that you have in your heart. Freedom here is not political freedom. Freedom here is freedom from regret, freedom from fear, from anxiety and sorrow.”

Thich Nhat Hanh

Filosofeggiando, Riflessioni, Self-Improvement

La Matrice

C’è una matrice impressa, profonda, sotto la sabbia compatta come pelle che ricopre i muscoli, quelli pulsanti, rossi, legati da tendini, bianchi come neve, perfetti. E’ la matrice che si stampa, lettera dopo lettera, codice dopo codice, elicoidale, globulosa, in ogni angolo del nostro essere, mentre il liquido amniotico ci avvolge e galleggiamo incoscienti della firma che portiamo dentro, la nostra, l’unica, immutabile.

Nella vita si evolve, si cambia ma mai natura, solo atteggiamento, gli occhi guardano con più lucidità, quando la presbiopia compensa la miopia sociale che ci ha obnubilato, per anni, immaturi e dolorosi. La luce è rifratta dal cristallino e la forma, la nostra, diventa diversa, più lunga, solida, con l’ombra attaccata, come con le unghie, senza più vergogna.

Ma non si cambia la matrice primordiale, chi siamo, cosa ci fa davvero palpitare, emozionare, saettare la nostra intelligenza, proiettata in uno spazio buio ma pieno di possibili.

L’ho capito tardi, l’ho accettato ancora più tardi.

Ho provato a riprogrammarmi, come se potessi strapparmi di dosso una patina diventata vecchia, volevo indossare un vestito nuovo, come se potessi nascondermi da ciò che ero, ciò che sono. Mi sono inventato modello di uno stilista calmo e posato, distante, bleso e integrato, fra sorrisi di personaggi ambigui, insopportabili, e di altri più simpatici, balbettanti, fragili, forse come me, che avevano l’apparenza confortante di ipotesi amicali.

Ho sfilato davanti allo specchio, roteando, una volta a destra, un’altra a sinistra, perplesso da quel mantello troppo lezioso che mi avvolgeva; svolazzante, fatto di pizzo e trasparenze, come quello di una puttana in un bordello degli anni ’30, compiacente e civettuola, fino alla notte quando il trucco cola, nero, come la coscienza, sulle guance ancora rotonde, di risate sincere e di alcool assorbito male, come una sfida lanciata, con un guanto sdrucito, alla vita che resta indecifrabile.

Il marchio di chi siamo è impresso a fuoco, scintillante e dorato, come un bacio; non è una condanna, è un miracolo, un dono stocastico di unicità irripetibile.

L’ho capito tardi, l’ho accettato ancora più tardi.

Ho accettato ancora più tardi che non mi interessava più ciò che si possa pensare di me, che la scintilla che mi anima non sia quella sbagliata ma è semplicemente la mia, col furore esistenziale che mi è proprio, avido di vita, curioso e intransigente, spettacolare e implacabile, come una mossa su una scacchiera, quella perfetta, brillante, venuta dal nulla, arrivata confezionata in carta di raso e nastro d’argento, con l’eleganza che solo i regali della mente hanno.

Mi sento in colpa per il tempo che ho sprecato a nascondermi ai miei stessi occhi, vergognoso del mio essere disallineato su frequenze diverse, disarticolato, indefinibile da dizionari che non fossero i miei, fustigato da sensi di colpa figli dell’altrui inadeguatezza. Mi son maltrattato, in nome di un rispetto teorico, ho accettato condanne per delitti mai commessi, salito scale, faticosamente, per poi riscenderle, fino agli inferi, mi sono incarnato in Sisifo per anni, ho spinto un masso sulla montagna e l’ho raccolto di nuovo a valle, per poi spingerlo ancora, per convenienza altrui e imbecillità mia.

Sono stato attraversato da un’antica passione, come da una corrente, ho rivisto geometrie, i miei occhi si sono mossi velocemente, i riflessi hanno iniziato a spazzare via la frustrazione della ruggine che aveva ricoperto ingranaggi nascosti in cantina, per la stolta idea di non doverli più utilizzare in nome della nuova faccia che volevo indossare, come maschera, di azoto liquido per coprire le cicatrici e spegnere le fiamme che ardevano un tempo.

Un sorriso compiaciuto, l’eco di una musica lontana, come una storiella di quand’ero bambino, una fila di lato fra capelli color cenere, un incedere timido, mi vengo incontro mentre ho in mano una fotografia, la mia di quando ero felice, abbracciato ai miei genitori, risoluto e divertente, mentre con le piccole dita accarezzavo il viso di mia madre e mio padre, mentre muovevo cavalli e legno, bianco e nero, lungo diagonali che sembravano infinite ma che si ricongiungevano in un disegno che mi si era costruito, come mattoncini colorati, nella mente libera.

Mi dispiace non aver saputo proteggermi meglio, mi dispiace non aver capito prima che dovevo costruire il mio Castrum per lasciar riposare quella matrice primordiale che ribolliva in me, al sicuro di un accampamento fortificato. Ho lasciato che la lava colasse sulle pendici, come fosse normale, come sangue che ribolle e viene sputato da una ferita e non come il fuoco sacro della forgia di Efesto, dove si batte il ferro per l’armatura di eroi che combattono, ogni giorno, per tracciare il cammino della virtù al di fuori della foresta, afosa e lattiginosa, della mediocrità.

La passione, dai molti volti, che arde nei bracieri della nostra anima è l’espressione di quella matrice originaria, di ciò che siamo fatti, è la guardiana della porta del nostro essere, è la guida lungimirante che ci riporta sulla nostra strada quando l’abbiamo smarrita.

Ora la riconosco, ne vedo il volto benevolo, ne ricordo i moniti e ricordo tutte le volte che ho provato a sfuggirle. Paziente ha aspettato il mio ritorno, per riabbracciarmi, ogni volta, perché tornando da lei ero tornato davvero a casa, nella mia casa.

Sono tornato di nuovo. Ed è una casa bellissima.
E stavolta ho intenzione di rimanerci per sempre.