Filosofeggiando, Riflessioni

Come Frankenstein

A volte ho l’impressione di lasciare sfuggire fra le dita, come acqua che cade da una fonte nella roccia, una serie di emozioni e sensazioni.

E’ come se la radio sintonizzata su onde sottili, si fosse desincronizzata, come rotta, brutalizzata da segnali di disturbo che sono diventati la colonna sonora abituale, fino a farsi credere come veri.

Com’è difficile guardare costantemente nello specchio limpido del proprio lago, quello posto proprio a metà fra budella e cuore, quello che si increspa non appena ci soffiano sopra i venti della materialità, invadente e violenta, come la cattiveria e l’indifferenza.

Cadono tessere di mosaico mentre avanziamo, ci abituiamo a quei buchi, lasciamo che ci trancino via grossi pezzi del nostro essere, come buoi su un bancone insanguinato, diventiamo esseri tronchi e pensiamo di essere più piccoli, storpi, dimentichiamo di guardare in alto come se una gobba ci pesasse sul collo, rigonfiamento artificiale imbottito da una colpa inesistente.

E, così, d’improvviso, sento di nuovo scorrere un’energia nuova, per raccogliere quell’acqua di fonte nella mia mano incurvata, come fosse una coppa, preziosa e unica, nella quale Ebe versava il nettare degli dei sul Parnaso.

Incollo nuovi pezzi e riempio i buchi, come Frankenstein, pieno di cuciture e cerniere, rivengo alla vita dopo che ogni volta muoio sempre un po’ di più.

Riflessioni

Pelli di serpente

Il vuoto, l’assenza di suono. Tratti tracciati con un pennello su una tela senza sfondo. Poi colori ed esplosioni, come di fuochi d’artificio, in un cielo che torna ad illuminarsi, prima della notte, scura, nera, irreversibile nella sua lentezza, in attesa di una nuova alba.

Lo scambio è continuo, nulla si può conservare per sempre, abbiamo e perdiamo, perché possiamo cercare di nuovo ed ottenere, quasi sempre in modo inaspettato anche se mai immeritato.

Il percorso dell’esistenza non è nel freezer dell’immutabilità; è un continuo cambiare pelle, anche quando ancora fa male farlo, quando i pezzi più duri non si staccano e un rigagnolo, bruciante e doloroso, di sangue si mostra sulle squame bianchissime. E’ negli schiaffi improvvisi, indesiderati, nell’imprevedibile che si abbatte, doloroso, togliendo il giocattolo in cui si specchia il bambino divertito, dalle sue piccole mani ancora curiose.

Prospettive spigolose che tagliano cuscini morbidi come seni generosi. Si sgretolano fotografie bifronti, dove la comodità e la scomodità si fondono, in un’alternanza effimera, il rifugio costruito fra gli alberi, come se non esistesse la strada principale ed unica, tracciata con l’asfalto nero e piatto, su cui far correre gomme, consunte, stanche, sgretolate, come quelle di trattori su un campo di grano non più coltivato da anni.

Rimbalzare come molle, senza rivestimento, ridicoli come se si scoprisse la vita proprio nel momento in cui suona il gong, come una sveglia programmata, per ridestare da un sogno, artificiale ma fondamentale per ritrovare una rotta verso il proprio interno.

Riscoprirsi ancora pieni, come cesti ribordanti di pani appena sfornati ma senza mani tese per afferrarli.

La paura.

Il pavimento freddo sotto le natiche, la testa fra le ginocchia, l’eco di risate lontane, la birra fredda, le lenzuola sporche di trucco e il ritmo monotono di battiti, su tamburi fatti di pelle tesa di cuore e muscoli.

Il richiamo del lavoro, nuovo, il sole nascosto fra le nuvole, menti instabili che mentono stabilmente.

Nell’aria il profumo dei fiori che soppianta quello del gas.

Sul selciato la pelle di serpente si accartoccia sotto il calore di una nuova stagione.

E’ solo un gioco, difficile ma inebriante, di chiavi da decifrare.

E’ tempo di scoprire un altro significato.

Filosofeggiando, Riflessioni, Self-Improvement

Chronos e Kairos

Ho un’ammirazione ed un rispetto sacro per i Greci antichi.

Ai miei occhi, interni ed esterni, sono stati gli investigatori più brillanti della Vita, così come gli Egizi lo furono della Morte.

I Greci non avevano una sola parola per definire il Tempo ma due.

Chronos era il tempo lineare, lo scorrere delle ore, dei giorni, delle stagioni.

Kairos era il tempo della qualità, l’attimo fuggente e magico che va afferrato perché è attraverso di lui che ci si immerge nell’esistenza. Kairos non ha dimensione, non ha lunghezza, non arriva ad un momento preciso, sfugge, vola via, poi ritorna, in silenzio, sussurrando, solo orecchie attente possono intercettare il suo invito ad afferrarlo, per non essere più come prima.

I Greci sapevano che la vita non è solo meccanica, che il tempo non è solo denaro, il Tempo ha molte facce, espressioni, manifestazioni. I Greci, da secoli, ci indicano che la Vita è fatta di momenti che vanno presi al volo, la Vita è fatta non di ore da riempire ma per riempirsi di ore, di qualità, dolci come miele, potenti e veloci come razzi spaziali che ti portano su piani esistenziali che faranno di te una persona stravolta in bene, diversa.

Kairos è il tempo che non ci è nemico, quello che non fa venire le rughe ma le stira, come un chirurgo plastico, perché Lui non ti vuole vecchio, ti vuole nuovo, migliore.

Non nel rumore del quotidiano ma nel silenzio dell’osservazione attenta delle meccaniche esistenziali, come in una Sindrome di Stendhal di fronte al quadro magnifico della Vita, per quanto dura, si percepisce il canto, non malinconico e deprimente di Chronos, dai capelli bianchi e le mani nodose, ma quello gioioso e cristallino del giovinetto Kairos, che porta doni, opportunità, che dilata gli attimi fino a diventare assoluto. Senza misura.

E’ il tempo della libertà che gli dei hanno regalato agli Uomini.

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La Matrice

C’è una matrice impressa, profonda, sotto la sabbia compatta come pelle che ricopre i muscoli, quelli pulsanti, rossi, legati da tendini, bianchi come neve, perfetti. E’ la matrice che si stampa, lettera dopo lettera, codice dopo codice, elicoidale, globulosa, in ogni angolo del nostro essere, mentre il liquido amniotico ci avvolge e galleggiamo incoscienti della firma che portiamo dentro, la nostra, l’unica, immutabile.

Nella vita si evolve, si cambia ma mai natura, solo atteggiamento, gli occhi guardano con più lucidità, quando la presbiopia compensa la miopia sociale che ci ha obnubilato, per anni, immaturi e dolorosi. La luce è rifratta dal cristallino e la forma, la nostra, diventa diversa, più lunga, solida, con l’ombra attaccata, come con le unghie, senza più vergogna.

Ma non si cambia la matrice primordiale, chi siamo, cosa ci fa davvero palpitare, emozionare, saettare la nostra intelligenza, proiettata in uno spazio buio ma pieno di possibili.

L’ho capito tardi, l’ho accettato ancora più tardi.

Ho provato a riprogrammarmi, come se potessi strapparmi di dosso una patina diventata vecchia, volevo indossare un vestito nuovo, come se potessi nascondermi da ciò che ero, ciò che sono. Mi sono inventato modello di uno stilista calmo e posato, distante, bleso e integrato, fra sorrisi di personaggi ambigui, insopportabili, e di altri più simpatici, balbettanti, fragili, forse come me, che avevano l’apparenza confortante di ipotesi amicali.

Ho sfilato davanti allo specchio, roteando, una volta a destra, un’altra a sinistra, perplesso da quel mantello troppo lezioso che mi avvolgeva; svolazzante, fatto di pizzo e trasparenze, come quello di una puttana in un bordello degli anni ’30, compiacente e civettuola, fino alla notte quando il trucco cola, nero, come la coscienza, sulle guance ancora rotonde, di risate sincere e di alcool assorbito male, come una sfida lanciata, con un guanto sdrucito, alla vita che resta indecifrabile.

Il marchio di chi siamo è impresso a fuoco, scintillante e dorato, come un bacio; non è una condanna, è un miracolo, un dono stocastico di unicità irripetibile.

L’ho capito tardi, l’ho accettato ancora più tardi.

Ho accettato ancora più tardi che non mi interessava più ciò che si possa pensare di me, che la scintilla che mi anima non sia quella sbagliata ma è semplicemente la mia, col furore esistenziale che mi è proprio, avido di vita, curioso e intransigente, spettacolare e implacabile, come una mossa su una scacchiera, quella perfetta, brillante, venuta dal nulla, arrivata confezionata in carta di raso e nastro d’argento, con l’eleganza che solo i regali della mente hanno.

Mi sento in colpa per il tempo che ho sprecato a nascondermi ai miei stessi occhi, vergognoso del mio essere disallineato su frequenze diverse, disarticolato, indefinibile da dizionari che non fossero i miei, fustigato da sensi di colpa figli dell’altrui inadeguatezza. Mi son maltrattato, in nome di un rispetto teorico, ho accettato condanne per delitti mai commessi, salito scale, faticosamente, per poi riscenderle, fino agli inferi, mi sono incarnato in Sisifo per anni, ho spinto un masso sulla montagna e l’ho raccolto di nuovo a valle, per poi spingerlo ancora, per convenienza altrui e imbecillità mia.

Sono stato attraversato da un’antica passione, come da una corrente, ho rivisto geometrie, i miei occhi si sono mossi velocemente, i riflessi hanno iniziato a spazzare via la frustrazione della ruggine che aveva ricoperto ingranaggi nascosti in cantina, per la stolta idea di non doverli più utilizzare in nome della nuova faccia che volevo indossare, come maschera, di azoto liquido per coprire le cicatrici e spegnere le fiamme che ardevano un tempo.

Un sorriso compiaciuto, l’eco di una musica lontana, come una storiella di quand’ero bambino, una fila di lato fra capelli color cenere, un incedere timido, mi vengo incontro mentre ho in mano una fotografia, la mia di quando ero felice, abbracciato ai miei genitori, risoluto e divertente, mentre con le piccole dita accarezzavo il viso di mia madre e mio padre, mentre muovevo cavalli e legno, bianco e nero, lungo diagonali che sembravano infinite ma che si ricongiungevano in un disegno che mi si era costruito, come mattoncini colorati, nella mente libera.

Mi dispiace non aver saputo proteggermi meglio, mi dispiace non aver capito prima che dovevo costruire il mio Castrum per lasciar riposare quella matrice primordiale che ribolliva in me, al sicuro di un accampamento fortificato. Ho lasciato che la lava colasse sulle pendici, come fosse normale, come sangue che ribolle e viene sputato da una ferita e non come il fuoco sacro della forgia di Efesto, dove si batte il ferro per l’armatura di eroi che combattono, ogni giorno, per tracciare il cammino della virtù al di fuori della foresta, afosa e lattiginosa, della mediocrità.

La passione, dai molti volti, che arde nei bracieri della nostra anima è l’espressione di quella matrice originaria, di ciò che siamo fatti, è la guardiana della porta del nostro essere, è la guida lungimirante che ci riporta sulla nostra strada quando l’abbiamo smarrita.

Ora la riconosco, ne vedo il volto benevolo, ne ricordo i moniti e ricordo tutte le volte che ho provato a sfuggirle. Paziente ha aspettato il mio ritorno, per riabbracciarmi, ogni volta, perché tornando da lei ero tornato davvero a casa, nella mia casa.

Sono tornato di nuovo. Ed è una casa bellissima.
E stavolta ho intenzione di rimanerci per sempre.

Filosofeggiando, Riflessioni

Sumo

Mi appassiono facilmente a cose che suscitano la mia attenzione, quando poi scopro universi da esplorare, pieni di sfaccettature e, per di più, lontani dalla mia concezione delle cose, sono ancora più affascinato, perché amo imparare, capire, lasciarmi penetrare dal senso profondo che posso intercettare.

E’ così che, da anni, è nata la mia segreta passione, bislacca, per il Sumo, che seguo, con bramosia, lungo i maggiori tornei nazionali giapponesi.

Il Sumo è una lotta molto antica, un po’ come la nostra lotta greco-romana, la prima traccia risale al 712, è citato nel Kojiki, che tradotto letteralmente significa “Cronaca dei fatti antichi”, che è un libro in cui si narra la nascita, mitologica, del Giappone e delle divinità dello Scintoismo.

I due lottatori si affrontano su un ring circolare e l’obiettivo è spingere l’altro fuori dal ring o fargli appoggiare a terra altro che la sola pianta dei piedi.

Prima di ogni combattimento si svolgono dei riti, perché, pare, il Sumo sia nato come una sorta di rituale religioso dedicato agli dei.

Ed è proprio quest’aura mistica, che spesso avviluppa le manifestazioni orientali, che arricchisce ancora di più il combattimento che diventa una sorta di metafora della lotta di ognuno di noi nei confronti delle difficoltà della vita, una lotta di giganti, di poderose forze contrapposte che danzano sul disco rappresentazione del cielo o della circolarità sferica del nostro pianeta.

L’incontro dura spesso pochi secondi, è in un istante, che ci sembra un’eternità, che si risolvono e svoltano le nostre vite. Bisogna trovare soluzioni rapide, non essere ciechi nell’attacco né troppo accorti nella difesa, non sarà la forza bruta ad essere la chiave, neanche la sola furbizia. Bisogna essere pronti, preparati, rapidi, pesanti ma agili, tutto e il contrario di tutto, spingere quando c’è da spingere, girare quando c’è da girare, cedere quando si può sfruttare il peso dell’avversario.

E’ danza, dove ogni movimento è codificato ma non la sequenza, come in uno spartito musicale si susseguono delle note, in uno spazio stretto, per comporre un combattimento disseccato all’essenziale, il Sumo è breve, rapido, brutale, è l’haiku della lotta.

Un torneo dura lungo più combattimenti, vince chi ne vince di più, non si gioca tutto in un incontro, ci sono più opportunità, proprio come nella vita, ci sono “match” che si creano con persone con cui ci troviamo bene da subito, altre ci mettono in difficoltà, perdiamo incontri facili, vinciamo quelli che non avremmo pensato di vincere, ci dobbiamo aggrappare alla nostra resistenza mentale e fisica, se vogliamo arrivare fino in fondo, difendendo innanzitutto la nostra dignità, per non uscire vinti non da un combattimento ma dal torneo.

Lo sconfitto rende omaggio con un inchino al vincitore, è un omaggio a chi ha saputo essere più forte e costante di noi, dandogli appuntamento al prossimo incontro, dove bisognerà trovare la porta d’ingresso esatta, per spingere e girare, destabilizzare, con coraggio, fulmineo, di un istante che diventa divino. Una sconfitta è opportunità di crescita, ringraziamo il nostro avversario che ci ha insegnato cosa non fare, ci ha reso ancora più grandi, forti e indomiti.

Il Sumo fa spesso sorridere gli occidentali, lottatori giganti e sovrappeso che fanno gesti strani, si schiaffeggiano i quadricipiti e lanciano sale sul ring, l’arbitro in vestito tradizionale e con un ventaglio, sembra una rappresentazione teatrale, come nel teatro del No tradizionale, ma è una rappresentazione teatrale. Tutto è rito, tutto è metafora, tutto è perché serviamo gli dei, provando ad avvicinarci ad essi, col sacrificio, lo sforzo, il sorriso e l’umiltà. Lotta, vita e morte, non c’è altro, la gloria è effimera, al prossimo combattimento può correre altrove, oppure restare, ciò che conta è lottare, per vivere e far vivere.

Il Sumo è una forma d’arte, di spiritualità, un’eco del passato che riverbera ancora oggi, uno scontro fra titani che si materializza davanti ai nostri occhi, un combattimento atemporale, nel vuoto dello spazio, che si risolve in un momento, perché chi domina l’eternità non guarda al tempo ma al sublime del gesto creatore figlio di un’idea e dell’azione.

Racconti AB-erranti, Riflessioni, Self-Improvement

NaNoWriMo

Il NaNoWriMo è un’iniziativa nata in USA per spronare scrittori, aspiranti tali ed affermati, a dedicare l’intero mese di novembre, ogni giorno, alla stesura di un manoscritto, tentando di raggiungere l’obiettivo di 50.000 parole, sufficienti per racchiudere un’opera.

Quest’anno, spinto dalla voglia di mettermi di nuovo alla prova, ho deciso di riprovare (sono alla terza partecipazione), lavorando tutti i giorni ad una nuova idea che, contrariamente alle precedenti che ho elaborato, ho voluto nascesse il primo Novembre, con l’inizio di questa sfida, affinché fosse tutto nuovo, giocoso, spontaneo.

Non tutti i giorni sono stati semplici, come ogni lavoro di stesura, ci son momenti in cui ti sembra di annaspare in una palude acquitrinosa, dove ti dimeni senza avanzare di un centimetro. Ma è il combattimento di un giorno qualunque della vita di ogni essere, l’Arte, il processo creativo, ne è solo l’espressione più pura, ma segue la stessa parabola. Ho provato, dunque, a ignorare le insoddisfazioni, per concentrarmi sull’obiettivo finale che, devo dire, si è rivelato raggiungibile, anche con un prodotto finito non troppo confusionario e, tutto sommato, soddisfacente.

Questo nell’immagine in alto, è l’attestato che ottiene ogni scrittore che riesce a scrivere le 50.000 parole entro il 30 novembre, è giusto un souvenir di questo breve viaggio. Ora mi resta in mano un manoscritto, l’ennesimo, da correggere e da perfezionare in un insieme coerente e fluido.

Il punto è che io detesto correggere.

Mi risulta più facile scrivere cento pagine che rileggerne dieci con la matita rossa e blu in mano.

Purtroppo per me, la scrittura, come la musica, somiglia più alla scultura che alla pittura, dove l’impeto creativo può esprimersi più liberamente, magari dando vita a nuove correnti pittoriche, in totale rottura con gli schemi tecnici dell’epoca. Le strutture e confini disegnati dalla sintassi e dalla logica, sono meno elastici, in compenso l’universo concettuale che si vuole esprimere può essere più facilmente definito che in altre forme d’arte. Insomma, come in tutte le imprese, c’è un tipo di lavoro che ci riesce più facilmente e un altro che ci piace meno svolgere.

Il mio è la rilettura e la correzione, non son tanto uomo da microscopio ma da grandangolo .

Riflessioni, Self-Improvement

Ambienti tossici e Schiavitù volontaria…

Gli ambienti tossici son quelle stanze dove entri senza maschera a gas, perché o ti hanno detto di fidarti, come della famiglia, o perché ti senti costretto, come al lavoro.

In entrambi i casi puoi decidere di tornare a respirare cambiando stanza, tutto dipende dal costo che sei disposto a sopportare.

E’ solo questione di valore che dai a te stesso.

Più vuoi essere libero e più il prezzo è caro.

Solo la schiavitù volontaria è gratuita.